Dylan, Bob – Bootleg Series, Vol. 4: The

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E finalmente, dopo oltre trent’anni di attesa, nel 1998 uscì una release ufficiale di quello che forse era il bootleg più desiderato dai fan di Bob Dylan, quello del concerto del “Manchester Free Trade Hall” del 17 maggio 1966. Il perché fosse stato invece chiamato “The Royal Albert Hall Concert” non ci è lecito sapere, ma dato che ormai per tutti i seguaci del menestrello di Duluth questo è semplicemente il “Royal Albert Hall”, la Columbia non ha ritenuto il caso di apportare una correzione alquanto sgradita. Misteri del rock.
Fatto sta che finalmente questo oggetto di culto è stato reso disponibile per tutti, e ciò è cosa più che buona vista l’importanza storica del concerto. Erano anni di transizione questi per Dylan, il secondo anno della ormai celebre “svolta elettrica” iniziata con Bringing It All Back Home” che spaccò in due il suo pubblico, che per la maggior parte accusava di tradimento quello che era considerato l’eroe della canzone di protesta, con le sue caustiche e profonde ballate acustiche. Da questo punto di vista, possiamo percepire questi “A-changin’ times” proprio nel nostro concerto: un primo set totalmente acustico e vibrante di emozioni, e un secondo assolutamente elettrico, sia per l’uso degli strumenti che per l’atmosfera instauratasi. Infatti, verso la fine dell’esibizione elettrica poco gradita dai fan più oltranzisti, uno di questi esclama irato «Judas!», e un serafico Bob Dylan si limita a rispondergli «I don’t believe you. You’re a liar…», per poi voltarsi verso la band, inviarli a suonare «fucking loud» e sparare in tutta risposta una lunga, esplosiva versione di “Like a Rolling Stone” e concludere in bellezza. Semplicemente mitico.
A prescindere da questo episodio, e dalle unanimi lodi della critica, questo concerto è comunque un capolavoro, una delle migliori esibizioni in assoluto mai registrate da Bob Dylan: una fama decisamente meritata, e dev’essere un vanto non da poco possedere i doppi vinili che allora registrarono questo bootleg.
Ma poi, “bootleg”… forse il termine può suonare come fuorviante, perché in genere non ci si aspetta da questo tipo di release quella stessa qualità dei live ufficiali: bene, un ragionamento del genere qui proprio non regge. Non c’è la pulizia di suono del “Bootleg Series Vol. 5”, ma questo fu registrato ben nove anni prima e si tratta di una registrazione ottima, ruvida al punto giusto per essere suggestiva e toccante – anche se c’è da dire che la resa sonora su un vinile renderebbe ancora meglio – per restituirci le medesime atmosfere di quegli anni.
La confezione in mini-box è qualcosa di sublime, sia per la grafica e la qualità delle foto d’epoca – alcune a quanto pare inedite – che per il contenuto del booklet, con una bella ed esauriente presentazione di Tony Glover, vecchio amico di Dylan.
Il concerto inizia a dire il vero un pò in sordina: in tutti i live di Dylan che ho sentito, ho constatato come al nostro occorra sempre qualche tempo per riscaldarsi, anche se a dire il vero “She belongs to me” e, soprattutto, “Fourth time around” sono comunque due songs di rara intensità. subito dopo però abbiamo un’impennata emotiva incredibile: la proposizione di “Visions of Johanna”, direttamente dal capolavoro “Blonde on Blonde”, è un brivido costante di oltre otto minuti, e lo stesso dale per la successiva, “It’s all over now, baby blue”, una delle più belle ballad mai realizzate dal menestrello almeno secondo il personalissimo avviso di chi vi scrive. Lo spettacolo continua con l’aspra “Desolation Row”, la dolcissima “Just like a woman” e uno dei migliori classici del repertorio di Bob: “Mr. Tambourine Man” con la sua mitica armonica, e sono applausi, anche perché è la fine di un primo set da sogno, che lascia soddisfatto l’ascoltatore di allora così come quello di oggi.
Nel secondo set avviene però la tanto odiata metamorfosi: via i panni del cantante folk, Bob Dylan si trasforma in un rocker a tutti gli effetti portando sul palco la propria band – il primo set l’aveva suonato tutto da sé con chitarra e armonica – lasciando il pubblico di sasso, una tensione percettibile anche nelle note delle chitarre che venivano accordate. Eppure gli Hawks che accompagnavano Bob pochi anni doposarebbero diventati “The Band”, LA band per eccellenza con la graffiante chitarra di Robbie Robertson. Dylan sembra vestire meglio i panni del rocker, tanto che si scatena subito con “Tell me, momma”, a quel tempo ancora inedito, stupendo ancora di più la sua audience. Il riarrangiamento elettrico di “I don’t believe you” poi dovette aver spiazzato totalmente il pubblico, se Bob si è ritrovato a dover spiegare che «That was “I Don’t Believe You.” It used to go like that, now it goes like this». Il pubblico non è più entusiasta come all’inizio, ma il nostro eroe se ne frega altamente e suona e canta divinamente, zittendo tutti con un certo humour. Oggi non possiamo forse capire il perché di tutta questa tensione durante pezzi magnifici come “One Too Many Mornings” (anche questa rielaborazione di un pezzo acustico) “Ballad of a Thin Man” o “Just like Tom Thumb’s Blues”, un set elettrico del genere è una cosa assolutamente magnifica. Ma dopotutto è ovvio, quelli erano altri tempi e assai diverso – migliore? no questo non spetta a noi dirlo – era anche il modo di intendere la musica. Anzi, di viverla.
E lo stesso Bob Dylan ne è un esempio, un grande artista ma soprattutto un uomo con la volontà di proseguire sulla propria strada a discapito di quello che pensava il pubblico: quello che contava non era il successo, ma il portare avanti le proprie idee e quella di Dylan è una delle più importanti lezioni artistiche e umane mai date da un cantautore. E infatti è riuscito ad averla vinta, scrivendo pagine fondamentali della storia del rock.
Un live assolutamente da sentire, nient’altro da dire.