Depeche Mode – Playing the Angel

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Venticinque e passa anni insieme e non sentirli, avendo sempre qualcosa di bello da dire. Roba che ogni gruppo metterebbe la firma in ogni dove, pur di ottenere tanto, ma è pur vero che privilegi del genere bisogna meritarseli, vuoi per il proprio talento, vuoi per l’impegno che ci si mette nei propri dischi; i Depeche Mode, come avrete capito, sono fra quelli che tutte queste cose se le sono meritate. Non più prolifici come negli anni ’80, a favore di una maggiore raffinatezza e qualità complessiva delle loro produzioni, i DM dagli anni ’90 in poi, pur fra varie vicissitudini son riusciti a dar vita ad album non sempre capolavori, ma sicuramente significativi e varii, riconfermandosi ogni volta come leader assoluti in una scena elettro–pop che da qualche anno a questa parte non ha fatto altro che limitarsi ad omaggiare i maestri. Il capolavoro “Violator”, il controverso episodio rock “Songs of Faith and Devotion”, il sofferto “Ultra” e il morbido e discusso “Exciter”, che pure è stato amato alla follia da chi vi scrive, alla luce della raffinata e languida sensualità che lo pervade, pochi album dal ’90 ad oggi ma tutti degni della grande attenzione del pubblico, e non mi riferisco solo alle cifre di dischi venduti. E infine, dopo i soliti quattro anni di attesa è arrivato “Playing the Angel”. Com’è quest’album? Sicuramente non mi sento di definirlo il capolavoro di Dave, Martin e Andy, accanto a dei nuovi, potenziali brani di culto sono presenti altri episodi che quantomeno mi hanno dato di che pensare. Tuttavia, i nostri paladini hanno nuovamente cambiato pelle, realizzando un album ricco di sonorità particolari, emozioni e anche qualche omaggio ad altri grandi maestri della musica elettronica. Sarà però meglio cercare di capire bene ogni brano di quest’ultima, sporca dozzina a cui Martin Gore ha dato vita. L’album si apre con “A Pain that I’m used to”, canzone che è praticamente un’autocitazione, in quanto riprende parte dell’ottima “The Dead of Night” – uno dei migliori episodi di “Exciter” – fondendola con una vaga eco dei momenti più disperati di “Ultra”; non fraintendetemi però, non è un inizio che sa di minestra riscaldata, ma un brano efficace destinato ad entrare nel cuore degli ascoltatori. Il gioco delle citazioni si ripropone con “John the Revelator”, un pezzo portato dagli eighties al terzo millennio, quasi una nuova “Fade to Grey” in chiave heavy e con dei cori efficacissimi. “Suffer well” presumo che sarà uno dei loro prossimi single, un brano dalla cadenza quasi dance che sembra riportarci indietro fino ai tempi del loro ormai lontano debutto. Molto bella “The sinner in me”, in cui lontani echi di kraftwerkiana memoria si amalgamano con quel mood fra dark e trip-hop che ha caratterizzato un tal capolavoro degli anni ’90 intitolato “Mezzanine”, mentre nel primo single estratto dall’album, la già arci-nota “Precious”, l’elettro-pop della ditta Hütter und Schneider si ripropone ancora, perdendo il suo teutonico distacco in favore di una dolcezza, che non caratterizzava certo i suoni di questi grandi maestri. Alcune note dolenti arrivano tuttavia nella seconda metà del disco: “Macrovision” è forse il brano in cui il recupero del Kraftwerk-sound è più evidente, ma il cantato eccessivamente melodrammatico di Martin mi fa quasi preferire che questa song fosse stata registrata solo nella parte strumentale, e confesso senza problemi di essere dell’idea che in una versione del genere, “Macrovision” sarebbe un’introduzione di grandissimo impatto per i loro prossimi concerti. Inoltre, “Damaged People” sembra quasi volerci riportare ai tempi di fede e devozione, ma ancora una volta Martin non riesce a convincermi, forse perché stavolta la sua voce si pone in un eccessivo contrasto coi synths, dai quali è regolarmente sovrastata anche quando supportata dai cori. Al contrario, a Dave Gahan l’esperienza solista – pur con certi brani trascurabili – pare proprio essere servita come ulteriore lezione per la sua voce, che migliora di anno acquisendo sempre più padronanza di toni ed emotività, almeno nelle registrazioni in studio: “I want it all” è forse la miglior prova vocale del carismatico singer, la cui voce sensuale e ammaliante si fonde magnificamente con le dolcissime musiche, quasi a voler chiudere gli occhi all’ascoltatore, cullandolo con questa romantica ballad – anche se in questi momenti sarebbe meglio essere in due, ve lo assicuro… Dave tuttavia riesce anche a colpire con un cantato quasi maligno, e non solamente per gli effetti: “Nothing’s Impossibile”, song mefistofelica e cupissima, sospesa fra il rock crepuscolare in stile SOFAD e desolate sonorità industrial, ulteriore conferma della versatilità ormai acquisita da Gahan. Fra l’altro, il nostro è stato accontentato e ha avuto modo di scrivere assieme a Christian Eigner e Andrew Phillpott tre dei migliori brani dell’album (“Suffer Well”, “I Want it all” e “Nothing’s Impossible”), e visti gli eccellenti risultati c’è da sperare che in futuro l’esperienza si ripeta. C’è spazio anche per “Introspectre”, brano tutto strumentale che per il suo tono malinconico e decadente mi sembra un voluto omaggio al David Bowie del periodo berlinese. “Lilian” entra facilmente in testa col suo ritmo danzereccio, in linea con l’attuale EBM: personalmente, trovo che questo pezzo sia il più ruffiano dei DM dagli anni ’80 a questa parte, ma d’altro canto devo riconoscerne l’efficacia. E quindi giungiamo alla fine con “The Darkest Star”, brano lentissimo in cui le voci dei due nostri eroi s’incrociano con buona efficacia; una composizione morbida e rilassante la cui efficacia mi pare dipendere molto dal momento in cui la si ascolta, e francamente non so quale resa potrebbe avere se proposta dal vivo. Dovendo tirare le somme, “Playing the Angel” è un album convincente e valido, pur con qualche ombra, che conferma una buona vena da parte dei DM anche se a dire il vero mi aspettavo, ancora una volta, un disco senza cali. Sono comunque convinto che chi non ha apprezzato “Exciter” troverà in “Playing the Angel” un album molto migliore, coi nostri tre capaci di riproporci canzoni ora oscure, ora languide, ora elettronicamente ricercate ma comunque tutte cariche di quella passione ed ispirazione che da sempre muove questo gruppo. E anche chi ha apprezzato il precedente album non potrà che essere contento di come i Depeche Mode ancora una volta non abbiano rinunciato a fare qualcosa di diverso. “Playing the Angel” non sarà il capolavoro assoluto nella discografia dei DM, ma ancora una volta ci troviamo di fronte a un gruppo che dimostra di avere delle idee da esprimere e, ancora una volta, darà vita a un grandissimo tour in cui i brani nuovi compariranno degnamente assieme ai vecchi classici. Non è poco, non trovate?