Ben Harper – Give Till It’s Gone

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10 maggio 2011 VirginRecords Ben Harper

Don’t give up on me now

“Non avevo mai realizzato un disco che scandisse così la linea del tempo. E’ una vera e propria estensione dell’ultimo anno e mezzo della mia vita, e tutti questi suoni sono ispirati alle mie esperienze. E’ la forma più onesta d’espressione musicale che potessi realizzare”… Ed è qui che forse il naso si allungò!

Innocent Criminals e Relentless 7, impacchettati in un temporaneo dimenticatoio, fanno la tara liberatoria di un Ben Harper solitario e stranito tra peccato e debolezza, e che in “Give Till It’s Gone” – decimo capitolo della saga – sfocia in una solennità anemica e lontanissima dal Ben che la storia ci ha fatto conoscere, un’ingombrante espressione di vuoto a rendere, orchestrata per coprire di smalto scaduto una fantasia che fatica oramai a replicarsi.

Quando non si sa più che granchio rock prendere, si tira in ballo la riflessione, l’intimità, le risoluzioni su inefficienze o amori da ricostruire, ma la contrazione di un istinto che non carbura più – momentaneamente o a tempo indeterminato – non viene mai azzittita dall’onestà intellettuale di farsi per un po’ da parte per rincollare i pezzi di una creatività fatiscente; rimane il mestiere – questo è innegabile – ma poi? Dov’è che si è arreso quel formidabile triage di soul, black & rock che questo texano esotico, dietro quella montagna di carne magnificamente umana del bassista Nelson, ha reso così vivo da far venire la “scimmia” ad un’umanità capovolta? Si è perso nella California dei Groove Master Studios di Jackson Browne e nelle roads Beatlesiane di Ringo Star (entrambi partecipano a sodare le tracce del disco) e per il momento il piacere assoluto di riascoltare “l’uomo che voleva rinascere ogni volta” è rimandato ad un tempo ignoto.

Disco di tecnica rock declassata a “tante altre”, anime splendenti ripiegate come colletti inamidati inservibili e soprattutto depredato da quelle ruralità sbavate che facevano drizzare il pelo, epurato di quei viaggi incontaminati alle sorgenti del “negro soul” sugli altipiani del gospel padre, che avevano rimesso un prezzo alto alle strade di polvere americane; e come in tante altre situazioni “contrattuali” si torna a mediare il nulla, a confezionare tracce “ponte” nell’aspettativa di una forza mentale, di una pappa reale ideale e fortificante che possa ridare inchiostro ad una penna asciutta.

Rock senza spoletta o perlomeno caricato a salve, come nelle “inglesissime” battute alla Fabfour psichedelici “Pray that our loves sees the dawn”, le luci stroboscopiche ingiallite degli anni sessanta “Get there from here”, “Spilling faith”, invaghiti spiragli Zoso “Dirty little lover”, blues di filiera “Waiting on a sign” e la fretta di scarnificare la sloganistica Younghiana in un’operazione mal riuscita, la goffa “Rock’n’roll is free”; sì non stiamo parlando di un giovinastro alle prime armi, ma di Ben Harper, l’eroe che si è messo da solo in un angolo buio del rock, e che in questo giro ostenta sensibilità ma non desiderio di ispirazione, propositi sfuggiti volutamente troppo nel presente.

Disco di transizione? Molto meglio la consegna del silenzio.