Joan Baez @ Auditorium PdM – Roma – 06 Luglio 2012

Attitudine e Visual: Il contesto è di quelli da gran sera. La gente affluisce in maniera meno ordinata già pregustando l’emozione incipiente. Intorno giganteggia la creatura di Renzo Piano come fosse una moderna versione del ventre di balena del Pinocchio di Collodi. Sul palco la scena è elegantemente minimale. Un divano di tessuto e una lampada dal vago richiamo Old English. Con sobria puntualità la Signora Baez si presenta sul palco e segna subito un punto di fascino ed eleganza. Vestito nero, capelli argentati e sciarpa rossa, settanta anni portati divinamente con la naturalezza delle sue rughe, dolci come la sua voce che il passare del tempo appena scalfisce.Il colpo d’occhio a chi vi scrive era notevole, ma penso al fluire di pensieri di una protagonista del rock, che poco più che ragazza dava il via alla rivoluzione musicale col compagno/amico Dylan sui palcoscenici dei festival rock storici. Una abituata alle emozione, ai segni sui cuori, incurante di quelli del tempo

Audio: La location è di quelle, assai rare nella Capitale, che rende piacevole ogni concerto. Nessun ritorno, le sinuose linee della cavea lasciano giocare i gorgheggi di Joan Baez. Forse non è più l’usignolo inerpicante di quasi 50 anni fa, ma ha la capacità di spolverare anche gli standard più toccati dal tempo, regalando ad essi tre minuti di eternità.

Setlist: La scaletta è stata una ritagliata sul pubblico europeo, forse poco riproponibile negli Usa. Si esibisce in un fuoco di classici della tradizione folk: With God on Our Side e It’s All Over Now, Baby Blue di Bob Dylan alla meravigliosa “Suzanne” di Leonard Cohen. E ancora The House of the Rising Sun e Farewell Angelina. Non manca la dimensione religiosa con un omaggio alla tradizione araba, dopo un suo viaggio in Marocco, oppure Jerusalem e Maria Magdalena. E poi ancora dal repertorio dei colleghi The Boxer di Simon and Garfunkel. C’è spazio per l’omaggio, forse non proprio nelle sue corde a Un Mondo d’amore di Gianni Morandi e a C’era un ragazzo.. Il finale è da togliere il fiato, con Gracias a la Vida, Donna Donna, Here’s to you  dalla colonna sonora di Sacco e Vanzetti. C’è spazio anche per Blowin’ in the wind del caro menestrello Dylan. Non sono più i tempi dell’Isola di Wight ma la profondità della sua voce tocca le corde delle emozioni.

Momento Migliore: Senza ombra di dubbio i duetti con l’artista di strada francese Marianne Aya Omac. Davvero incredibile, culminata con una gran versione di Cuccuruccuccù Paloma di Caetano Veloso. La signora Baez, la grande artista sa ancora annusare il talento laddove si annida. E ha l’umiltà di portarlo avanti, dote rarissima.

Pubblico: Piccola riflessione: sentire Joan Baez cantare pezzi storici della controcultura degli anni sessanta, inni di pace, di un mondo che si voleva cambiare e che invece ci ha cambiato fa impressione. E non a lei che ha sempre avuto coerenza di donna e artista, ma  nei tanti spettatori, dove si malcelava qualche politico o uomo in vista della classe dirigente di questo Paese, che avrà, forse, in cuor suo provato un briciolo di vergogna per la distanza tra quello che sognava di essere e ciò che è diventato.

Locura:  Forse l’interpretazione di Imagine di John Lennon. Ci vuole coraggio. Con la sua storia è sempre rischioso cercare un confronto simile. Direi che se la cava egregiamente. La follia di John avrebbe apprezzato il garbo con cui ha retto il confronto.

Conclusioni: Emozioni, classe, storia. Una summa della rivoluzione musicale e artistica del novecento. Essere poetessa e cantrice di poeti, una Fernanda Pivano della chitarra. A differenza di molti suoi colleghi, Joan Baez mostra una capacità di leggere la contemporaneità storica in cui vive, senza mai cedere alla logica del Come Eravamo. L’usignolo si è ingrigito, ma ancora canta con bellezza virginea. Non ci resta che farci cullare dalla sua voce alla nostra anima.

Le foto non si riferiscono alla data recensita