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Nel 95, quando stavano per chiudersi definitivamente le porte del grunge, e quando la musica iniziava a muoversi verso nuove soluzioni sonore, arrivò, pesante come un macigno, il “supergruppo”. Un’idea nata tra una clinica di disintossicazione e uno studio di Seattle, ad opera di illustri nomi anch’essi cresciuti in quel gelido e piovoso angolo d’America. Mike McCready (Pearl Jam) alla chitarra, John Baker Saunders (bassista blues), Barret Martins (Screeming Trees) alla batteria e Layne Staley (Alice In Chains) alla voce. Il progetto del “supergruppo”, voluto inizialmente dal chitarrista Mike McCready nella speranza di trovare una valida soluzione alle sue voglie “alcoliche”, prese vita in appena dieci giorni di registrazioni ricreando uno scenario da Inferno Dantesco, a dispetto di un titolo che invece potrebbe richiamarne il Paradiso. Inutile cercare definizioni più appropriate, questo album è un ode al dolore, alla sofferenza più atroce, un tormento interiore che diventa una condizione di vita, quasi tollerata. Solitudine, abbandono, inquietudine, morte, decadenza, paura, lacrime, demoni e tutto ciò che possa avere anche una lontana accezione negativa risiede in questo album. D’altronde l’universo che gira intorno alla mente di un eroinomane come potrebbe lasciare intravedere barlumi di fiducia? Gli spunti più utili nella produzione di questo album arrivano dal basso di Baker fortemente blues, mentre il grunge diventa solo una cornice utile per individuare le influenze dei quattro. Un’ apertura lenta e depressa con “Wake Up” spinta con forza da un basso mesto e struggente ma incredibilmente ipnotico. Gli altri lo seguono disciplinatamente fino alla breve esplosione vocale di Staley che a suo modo disegna lo scenario dell’intero album. Arriva “X-Ray Mind” graffiante e inquieta nell’estensione vocale e con evidenti richiami al buon vecchio grunge. Ci siamo, preparatevi all’estasi completa. “River Of Deceit” non lascia scampo, è quanto di più intenso e meravigliosamente profondo si possa chiedere alla musica. Un rock blues dolce e una voce dannatamente sofferta tanto da far male. Staley si arrende al dolore trasformandolo in una scelta personale “My pain is self-chosen” mentre a noi regala la bellezza disarmante di questo pezzo. Con “I’m Above” entra in scena Mark Lanegan (Screemin Trees) in un duetto decisamente più duro e vigoroso, lasciando spazio allo scalpitante McCready sempre più desideroso di ricordare le sue preferenze decisamente più heavy ma pur sempre con attento controllo. Ritorna il blues con “Artificial Red”, forse il pezzo più autobiografico con cui Staley già ci avvertiva che una clinica di disintossicazione non sarebbe servita a cancellare il suo malessere interiore. L’anima degli Alice In Chains viene dichiaratamente espressa in “I Dont Know Anything” pesante e inquietante come non mai e con un testo ossessionante e ripetitivo a sottolineare la totale indifferenza e confusione mentale di chi canta “Non so niente…Non so chi sono…Non so chi essere”. A questo punto ecco ritornare Mark Lanegan in “Long Gone Day” e qui le parole si bloccano insieme al respiro per circa quattro minuti! I due si alternano delicatamente e con l’aggiunta di un sax lieve il risultato è il pezzo decisamente più commovente e drammatico dell’intero disco. L’album si chiude con “All Alone” che oserei definire quasi beatificante. Poche parole “We’re all alone” e tutta la grazia della sua voce per salutarci. Un’opera unica, assolutamente irripetibile. Solo un consiglio però, da ascoltare solo ed esclusivamente se vi gira bene, altrimenti le conseguenze potrebbero essere seriamente disastrose!