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Quando si incontrano album come questi c’è poco spazio per le parole; o meglio è necessario aver cura di non impoverirne i contenuti.
Paolo Cattaneo è un musicista bresciano con molto esercizio alle spalle e questo disco conferma certamente tutte le virtù in suo possesso, ma quello che convince maggiormente è la sua abilità nel catturare lo spirito dell’ascoltatore con estrema delicatezza e discrezione.
Abile nell’abbattere ogni segno di gravità, il suo stile, particolarmente affine alle corde di Parente e Basile e alle impronte di Fabi e Sinigallia, si immerge in un affresco fatto di tinte tenui, figure in movimento e inquietudine umana.
Un’esperienza che ammutolisce, un invito al silenzio e al raccoglimento interiore, l’esaltazione di quel genere di malinconia che non dà tormento ma al contrario si rivela paradossalmente gradevole e attraente.
Con quest’ultimo Cattaneo l’equilibrio non serve, perché ti lascia sospeso ad osservare l’individuo dall’alto, con la sicurezza di quella predilezione sonora che ogni coreografo gradirebbe contare e quella forza lirica che ogni poeta vorrebbe esprimere.
Una ricercatezza stilistica rassicurante appunto, che solo un cultore del suono possiede e una grazia compositiva che solo un poeta è in grado di trasmettere.
Un album dai colori invernali ma dal tono caldo e intimista, che culla i sensi lasciandoti in silenzio tra le coperte in disordine fissando un soffitto che fa chiasso.