Attitudine e visual: è una sagoma Aimone Romizi (cantante dei Fast Animal and Slow Kids): su questo non ci piove. Sono travolgenti tutti questi animali veloci e bambini lenti che vanno a formare il combo perugino scovato (e prodotto) dal buon Appino degli Zen Circus. Fanno un pasticcio colorato a pennarelli punta grossa di punk-rock, di quelli così carini da appendere in casa. Fanno i cazzoni certo, sfoggiano baffi e chiome ricciolute di tutto rispetto, ma soprattutto suonano anche dannatamente bene. Riff schizofrenici fanno da contraltare alle declamazioni semiserie del frontman baffuto che galoppa da una parte all’altra dello stage alternandosi a voce e tamburi. In mezzo al piglio goliardico di questa baraonda “tutta da colorare” non è difficile però scovare perizia strumentale, testi finto-allegri dalla sagacia nascosta e tiro live della Madonna. Ti viene in mente la foga iconoclasta del cabaret-punk targato Dead Kennedys, ma la frustrazione rabbiosa è sostituita in toto da vagonate di sarcasmo post-adolescenziale. Ancora non si grida al miracolo d’accordo, ma le premesse mi riportano ai fasti puerili in cui coloravo da Dio senza sbavare le sagome delle figure. Se non vi piacciono sarete comunque costretti a lanciar loro fresh fruit and vegetables…
Le bestie del Circo Zen saltan tutte fuori, pronte a lasciar la consueta scia di r’n’r e sudore. Sornioni, gagliardi, toscani insomma: una bomba nel cuore dal piglio folk-punk, testi al vetriolo che non fanno prigionieri e la sana (auto)ironia casereccia ormai marchio di fabbrica del trio. Appino ha i baffi, Ufo non ha la barba, Karim è la fusione tra Frank Zappa e Iggy Pop. Le presentazioni sono finite: è tempo di esplodere.
Audio: pulito e grezzo al punto giusto per entrambe le band. Nei F.A.S.K. affiora bene la voce graffiante di Romizi che nei momenti di foga ricorda le sgolate sicule di Alosi nel Pan del Diavolo. La voce di Appino invece ammanta con il solito timbro profondo le vigorose linee di basso di Ufo e le acrobatiche partiture di Karim dietro le pelli.
Set list: quando recensii l’ep d’esordio Cioccolatino i FASK già mi piacevano. Il full lenght susseguente Cavalli prosegue sugli stessi binari ed è chiaramente unico oggetto su cui sciorinare la ruspante scaletta dell’Hiroshima. Mangio e Lei avevano lo status di riempi pista già nei pubbetti perugini probabilmente, Lì e Collina rincarano la dose d’adrenalina fruibile col sorriso sulla bocca ed il piede che batte, la triade Nervi-Cioccolatino-Copernico palesa che questa band ha tutte le carte in regola per spaccare aggregando l’intero circuito indie. Guerra lascia aperte porte interessanti per possibili sviluppi post-galoppata.
Che gli Zen non si risparmino MAI è un dato di fatto: loro sono animali da live show, che si consumi questo su un palco prestigioso, in strada con set da busker navigati o ai citofoni di Radio Maria, l’importante è imbracciare gli strumenti e suonare. La scaletta lascia parlare i Nati per Subire senza dimenticare il dictat di Andate tutti affanculo con le dovute soste a Villa Inferno. Si parlerà di Italia e di italiani, mettendo subito in chiaro che non ci saranno sconti per nessuno Nel Paese che sembra una scarpa decantato dagli Zen. Si procede turbolenti col gommone di Atto Secondo e poi è subito “lapsus” coi Vent’anni un po’ stronzi, un po’ sonnacchiosi. I Qualunquisti fanno da traino a La Democrazia semplicemente non funziona, tutte prese di coscienza che gli Zen presentano come “punti interrogativi” su cui riflettono e spronano a riflettere, più che semplici dati di fatto. L’Amorale riporta ai Pixies più spigolosi mentre Milanesi al mare ha una scanzonata verve da fiera popolare. C’è anche la chitarra gracchiante del Ragazzo eroe ma manca incredibilmente la Ragazza eroina (che scoprirò esser pensata per un possibile bis acustico non avvenuto). L’inno Nati per subire è omaggiato dalle ugole di tutto il pubblico.
Gente di merda, We just wanna live, Vecchi senza esperienza sono mine vaganti di nichilismo bombarolo, Figlio di puttana e Vana Gloria sono squisiti echi di Brian Ritche esplosivi come appena sfornati.
In tutta questa abbondanza perché non dare un saluto al buon Nello Scarpellini? I baNbini sono pazzi e Fino a spaccarti due o tre denti riempiono il cuore dei fan di vecchia data, che sognavano anche L’amico immaginario. All’appello mancano Franco (ce n’era bisogno forse nella Torino dipinta dalla cronaca di queste settimane) e Cattivo Pagatore (anch’essa ipotizzata nel bis acustico non pervenuto).
Guarda la Gallery (by Martina Caruso)
Locura: c’è tanto divertissement nei siparietti dei FASK, capaci di essere beffardi ma in fondo mai superficiali ad un ascolto attento. Gli omaggi a Belzebù, le smorfie da istrione di Aimone, i nomignoli da pseudo cartoon con cui è presentata la band sono però solo preludio della locura da lacrime laddove Aimone enuncia le regole per fare i tamarri in ambito rock’n’roll mentre la “cassa dritta” miete successi sul dancefloor.
Gli Zen sono loquaci come sempre, mediamente incazzati (il mood “amareggiato” preferiscono lasciarlo agli pseudo signori del Parlamento dicono) e cazzoni al punto giusto. Il picco ridanciano della festa Zen è abbastanza singolare: Appino trova una patata (!) sul palco che desta un simpatico straniamento che non può che concludersi con un “Viva la patata!”. Si ride anche quando dopo un improvviso stage diving il front man perde il microfono tra il pubblico (sarò proprio io a raccoglierlo da terra…). Manca invece l’ormai storica evocazione di Abdul, il fittizio (?) spacciatore milanese che vende la “roba” ad Ufo il giorno di Natale senza fare sconti: Abdul è in gabbio ci confidano gli Zen tra le risate degli afizionados.
Pubblico: lo zoccolo duro del Circo non manca all’appello, fedele al mood di una band che ha virato verso il popolare più che verso il semplice pop. Nati per Subire porterà indubbiamente più teste sotto i palchi degli Zen, attirate da sonorità più elettriche ma anche più “fruibili” del passato: la speranza è che tutti ascoltino con zelo anche le sempre più sagaci liriche di Appino. Il pubblico rimane comunque abbastanza eterogeneo a supporto del conclamato desiderio della band di abbattere le barriere tra “stili” ed etichette e ricreare degli spazi di aggregazione il più trasversali possibili.
Conclusioni: Fotografare il Bel Paese con questo piglio non è davvero cosa da tutti. Gli Zen parlano al popolo sentendosi parte attiva di esso, uniscono serio e faceto in un realismo made in Tuscany tutto da godere, portano in giro uno show alla nitroglicerina stampandoti un punto di domanda sull’esistenza che è difficile non tenere in considerazione, ma stampandoti anche un bel sorriso in viso.
Come dicono loro “non è facile spiegarlo in quattro accordi”, ma personalmente mi conquistano ogni volta.