Bruce Springsteen – Wrecking Ball

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L’Unione fa la forza. Che lo dicevano già i saggi della montagna, sai la grande novità. Ecco, andatelo a spiegare a Bruce Springsteen, che l’ultimo decennio l’ha trascorso quasi tutto correndo per conto suo e indossando panni del Boss solitario, fossero il mantello da superuomo di Working on a Dream – l’onta che non dimenticheremo – piuttosto che le povere vesti acustiche di un Devils & Dust, lontana eco del Nebraska quando davvero quella solitudine fu un toccasana. Per richiamarlo ai doveri della vita di gruppo ci è voluta, paradossalmente, la scomparsa di un vecchio sodale come Clarence Clemons, sassofonista storico della E-Street Band che nella versione di Land of Hope and dreams in scaletta fa la sua ultima comparsa.

Di contraddizioni come questa si nutre Wrecking Ball. Che esce accreditato al solo Springsteen ma suona più che mai come un lavoro collettivo, di concezione quasi (oh-oh..) “socialista”, per quanto tiene a far accompagnare costantemente alla prima voce tutto il coro. Che è essenzialmente un disco rock ma con il cuore ben radicato nella tradizione folk, così come la mostravano le Seeger Sessions di We Shall Overcome, con quella prima persona plurale bene in vista il migliore articolo del catalogo springsteeniano dall’inizio del secolo. Che oscilla tra passione per la causa comune e amor di patria, due aspetti sempre pericolosamente confinanti nel canzoniere di Bruce (ricordate Born in the USA? O The Rising?). Che in  versi come “wherever this flag’s flown” pecca sì di retorica a stelle e striscie, ma ad ascoltare tutto quanto il testo di We Take Care of Our Own rende bene l’idea di un’America che si stringe intorno a se stessa, ora che pure la propaganda del vota-Obama è esaurita (non senza un po’ di amarezza) e non restano che le persone.

Dove non prevale il patriottismo c’è la critica lucida di This Depression e quella antispeculatori di Death of My Hometown, ritorno ai luoghi desolati che già venivano saccheggiati in My hometown, del 1984. Questa volta però non è una ballata malinconica ma una marcetta dalle fragranze irlandese, quasi allegra, che suona la carica per tutti quanti. Come il lieto fine di We Are Alive. Perché anche se si intitola alla palla demolitrice, The Wrecking Ball è un disco che  anziché distruggere, pensa a ricostruire.