Nick Cave and the Bad Seeds – Push the sky away

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Pronostico facile quello per il quale, con l’abbandono di Blixa Bargeld e di Mick Harvey poi, a prendere il posto da vicecapitano nei Bad Seeds sarebbe stato Warren Ellis, fino ad ora “soltanto” primo violino. Facile, perlomeno, una volta che lo si è visto prender parte alla parentesi con i Grinderman e, soprattutto, in coppia con il leader per ben quattro sonorizzazioni di altrettante pellicole – The Assassination of Jesse James di Andrew Dominik, e la trilogia di John Hillcoat, The Proposition, The road e, recentemente nelle sale, Lawless. Di queste ultime soprattutto è figlio legittimo Push the sky away che, sempre in tema di discendenze, così viene descritto dal suo autore: “se dovessi usare quella ritrita metafora degli album come bambini, allora Push the sky away sarebbe lo spirito del bimbo ancora in incubatrice, e i loop di Warren sono il timido, tremolante battito del suo cuoricino”. A questo punto facile prevedere pure che il ritorno di fiamma per il garage rock che animava Dig Lazarus Dig! fosse storia passata.

Si riparte da dove ci si era interrotti, dunque, dal tempo dei grandi lenti “da ufficio”, tra pianoforte e scartoffie? Non esattamente. Perché, precisa ancora il diretto interessato, l’album in questione “seems new but ‘new’ in an old school kind of way”. E perché per essere lento, il disco nuovo è lento eccome, ma degli arrangiamenti d’archi e dei lussuriosi cori gospel che infarcivano Abbattoir Blues/the Lyre of Orpheus non resta molto. Ellis va tessendo una tela minima, mentre il suo sodale…prende appunti. Nel mirino dei testi passa qualsiasi cosa gli salti all’occhio, oltre la finestra o mentre naviga in Internet, dalle ultime novità della ricerca scientifica a un’epifanica quanto inaspettata apparizione di Hannah Montana (sic). Cave interroga il mondo da fermo, e gli basta un attimo per scendere dalle alte vette liriche che gli sono famigliari alle derive più grette (“Have you ever heard about the Higgs Boson Blues? / I’m gonna go down to Geneva, baby / I’m gonna teach it to you”).

E’ senz’altro un disco “di parola”, da seguire passo passo col libretto dei testi davanti, come quando si canta la messa.  ma se sulle prime l’anima musicale sembra ridotta ai minimi per lasciare spazio a un protagonista logorroico come poche altre volte, un paio d’ascolti in più la rivelano nella sua chirurgica puntualitàad esempio nel secondo singolo Jubilee Street, quando i violini si limitano ad accompagnare l’ennesima storia di miseria e redenzione, per poi prendere il sopravvento all’ultimo, “levitando” insieme al protagonista. Potrà anche sembrare el disco más sereno de la bestia”, come hanno scritto quelli di El Pais ma basta riservargli un po’ di tempo per scoprirgli un cuore inquieto. Mai come stavolta, il diavolo si nasconde nei dettagli.