Shellac – Dude Incredible

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“Pronto Ilaria, che me la dai un’occhiata alla copertina di Dude Incredible degli Shellac? Che animali sono quelli? Pare che facciano wrestling”
“Sono primati. La struttura che hanno gli permette di fare cose simili. E’ raro nel mondo animale”
“Bene, grazie per la consulenza”
“Che grazie. So’ 50 euro”
“Si, si. Come no”

Avete presente la lettera che Steve Albini, in veste di produttore, scrisse ai Nirvana prima che iniziassero le registrazioni di “In utero”? Riassume tutta la sua filosofia. Di lavoro e di vita. C’è una frase però che in questo caso vorrei riportarvi. Ed è la seguente: “ Se ci metti più di una settimana a registrare un disco, qualcuno sta sbagliando qualcosa”. Peccato che stavolta il buon Steve non c’abbia messo sette giorni. Ma sette anni. Gli stessi che sono passati dal precedente, e stupendo, “Excellent Italian Greyhound”, penultima fatica degli Shellac. Perche tanta attesa? Ci saranno sicuramente delle ottime ragioni. Pragmatiche. Realiste. O forse, a questo giro, c’era ben altro da catturare. Non solo energia, entusiasmo, creatività. Si perché questo disco, il quinto in studio degli Shellac, ha tutto il sapore del commiato. Del testamento. Ma andiamo con ordine.

Si parte subito a manetta, con la title-track. Nell’intro sembra quasi affiorare una citazione di “Cherub Rock” degli Smashing Pumpkins. Ma e’ solo un abbaglio (a proposito, andate a scovare su internet alcuni degli aneddoti di Albini sui Pumpkins, meritano). Pochi istanti e la band ritorna a imporsi, col suo marchio di fabbrica, sulla povera canzone. Violentandola. Meno del solito, a dire il vero. Infatti, del tutto inaspettatamente, entra a gamba tesa il primo refrain. Quel maledetto “hand over hand over hand” che personalmente non mi leverò mai più dalla testa. “Oh my brothers and oh my other comrades”. Queste le parole con cui esordisce il nostro. Perfette per l’occasione a cui accennavo prima. Per un commiato. In realtà il brano, fra stacchi, ripartenze e accelerazioni, racconta, alla maniera di Albini, una losca trama di bulli, di cameratismo da strada e botte da orbi. Ma il dubbio rimane. Unico elemento perturbante, verso la fine, un accenno di coro in falsetto, a fluttuare sulla deriva hardcore. Uno a zero per gli Shellac.

“Compliant” e “You came in me” ci percuotono a dovere. Quasi rassicuranti nel loro essere così fedeli al verbo di cui si fanno portatrici. Sono esattamente le canzoni che ci aspettiamo dagli Shellac. Pause. Vuoti. Geometrie serrate. Deflagrazioni. Animali che fanno Wrestling. Può apparire insolito, ma è del tutto naturale. E’ questa la chiave del grottesco. L’arte come imitazione della vita. Perché la vita spesso e’ fatta di questo. Di calma apparente. Di rabbia che serpeggia. Di atroce ironia. E se qualcuno, dopo oltre vent’anni di attività, lo chiama manierismo, allora ben venga. Accade però che, durante “Compliant”, la chitarra stenda un velo d’armonia sul brano, da cui s’affaccia un’esile melodia vocale, che ci scorta fino a casa, fra gli Slint di Spiderland e il Joe Lally degli ultimi Fugazi. A casa Shellac, insomma. La faccenda dell’addio comincia a sembrarmi sempre più seria.

Se nella terza traccia era l’elemento percussivo a dominare, nella successiva “Riding Bikes” il grande Bob Weston, armato di basso elettrico, ci ricorda cosa vuol dire far cantare il proprio strumento, senza essere un pagliaccio emulo di Mark King. Ed è un canto struggente, seguito sottotraccia dalla chitarra “mute palm” di Albini. Pronta ad azzannarci da un momento all’altro. Come un coccodrillo che attraversa la palude. Non meno struggente il ricordo racchiuso nel testo. Parla di gioventù. Di quando si andava a spasso in cerca di guai e di avventure, come piccoli vandali, per il semplice gusto di correre. Tanto tempo fa. Uno spaccato urbano degno di un romanzo di Pasolini, ma senza sovrastrutture ideologiche, o tarli psicanalitici. Soltanto la pura gioia di un furioso vivere. Tutto mi aspettavo, tranne che servissero i fazzoletti.

Quattro a zero. I pezzi, finora, si sono dati man forte l’un con l’altro per sbattermi ko. “Hand over hand over hand”. Potremmo anche fermarci qui. Ma la seconda metà incombe. “Who fears the king?” Fuck the king!”. Così un coro a cappella introduce “All the Surveyors”. Musicalmente, la parentesi più spiazzante del disco. Di certo Albini non ha paura del re. Non ha paura dell’industria musicale. E se ne fotte dei canoni estetici che propaganda. Lo dice in larga parte la sua storia di produttore. Lo dice la sua storia di musicista. Di pioniere. Lo dice la sua arte. Fatto sta che Surveyor, d’ora in poi, sarà la parola d’ordine. Compare in ben tre brani. Rispettivamente “All the Surveyors”, “Major/Surveyor”, e la conclusiva “Surveyor”. Come a decrescere. Agrimensori. Persone che adottano parametri. Che compiono misurazioni. Nell’opera di Albini, bizzarro levriero d’origine torinese, da sempre, regna uno scontro atavico fra caos e controllo, fra imprevisto e reazione. Forze contrastanti che si sfidano sul campo. At Action Park.E la musica degli Shellac e’ tanto calcolata quanto libera. Questo disco ne è l’ennesima conferma. Menzione d’onore per l’insostituibile Todd Stanford Trainer alla batteria.

Negli ultimi sette anni, molti di questi brani sono stati eseguiti dal vivo. Uno di questi, “Gary”, anti-ballad abrasiva alla Jesus Lizard, girava sul web col titolo di “Gary,Indiana”,la stessa città da cui, a quanto pare, prese spunto l’attore James Frank Cooper per il suo ben noto nome d’arte. Questo mi fa pensare ad uno dei versi tratti dalla prima canzone di “At Action Park”, il debutto discografico degli Shellac. La canzone è “My black ass”, e il testo , fra le altre cose, dice: “It’s a Gary Cooper Story”. Vuoi vedere che è davvero una cartolina d’addio? A sostegno di questo, le parole di Albini in un’intervista del 2003, che trovate sul canale Kreative Kontrol di Youtube: “We’re old and slow. We don’t really have any ambition at this point. We’re just doing a process.”

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