Gazelle Twin – Unflesh

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All’età di 13 anni, mi faceva orrore ciò che ero. A detta di certi canoni estetici, tra tutte le forme di “bello” o se non altro “accettabile” che mi venivano proposte, io proprio non rientravo in nessuna – manco per sbaglio – . La mia coscienza era ancora una poltiglia informe in un crogiuolo di ansia, panico e senso di inadeguatezza a cui non sapevo porre rimedio: un Anti-Body, appunto. Riscattare me stessa attraverso l’esperienza musicale è stato un passaggio chiave: un’immersione nei suoni più oscuri, requiem creati da chi di disagio ne aveva – anche per motivi analoghi – ben più di me. E lo esprimeva con potenza e grazia. Unflesh tocca uno dei tasti più dolenti del processo di autodeterminazione di ogni essere umano come tale: quello dell’inadeguatezza, del duello anima-corpo come due parti dapprima ben distinte, poi amalgamate nell’espressione del medesimo senso di disagio.

My experience was completely horrific. Young people in general get a lot of grief — their emotions aren’t taken seriously, dismissed as hormonal. But when you think how powerful those experiences are at that age, and how much they stay with you, it’s a shame

Una doccia gelata in confronto ai precedenti lavori della Bernholz, la quale si allontana con urgenza da ogni forma melodica e tramuta il timbro cristallino di “The Entire City” in un lamento gutturale tagliente, accompagnato da percussioni esangui e da un ritmo intervallato solamente dai rumori meccanici che fanno parte ormai della nostra quotidianità: siano essi provenienti da campanelli o da registratori di cassa – Belly of The Beast -.

Una Gazelle Twin che si mette completamente a nudo e ci racconta un passaggio esistenziale, esperienziale in rapporto alla sofferenza; scarnificando il proprio ‘Io’ per giungere alla consapevolezza di se stessa.

The idea of ‘unflesh’ is like a shedding of skin, It’s a tearing out of your body down to your skeleton and breaking free

Alternando l’aggressività di industrial beat sintetici – GUTS –, alla dolcezza malinconica di nenie per figli mai nati – Premonition –, Elizabeth Bernholz esplora a tutto tondo la tematica del rapporto con il proprio corpo, qui grandissimo antagonista. Un viaggio che si apre e chiude in maniera altrettanto drammatica – Still Life – e che rivela un modus operandi molto differente, sia nel soggetto che nel suono, rispetto all’album di debutto, lasciandoci con un quesito, ovvero: ora che ha combattuto le sue paure a viso aperto, attraverso quale storia ci farà ballare nel prossimo capitolo della sua personalissima saga?

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