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27 gennaio 2015 | Universal | verdena.com |
A volte mi sorprendo di me stesso. E rimango imbambolato per interi secondi, che paiono secoli. Come in un breve incantesimo. Non so spiegarmi il perché, ma per certi dettagli, per certe minuzie, per certune scorie del tempo trascorso, ho quella che si dice: “la memoria di un elefante”. Sarà stato un pomeriggio d’Autunno. O forse era Inverno? Era un Sabato. Ma sì, certo, dopo scuola. Mi trovavo a Ponte Milvio. All’epoca i Mocciosi non gli avevano ancora messo le ganasce. Passeggiavo, con in mano una copia di “Tutto Musica”, gentilmente offerta dalla paghetta di papà. Quel giornale adesso non c’è più, un po’ come tante cose. Un po’ come quegli anni. Ma andiamo oltre. Si sa, il tempo gioca brutti scherzi.
Mi appostai da qualche parte, forse all’entrata del Gianfornaio, e cominciai a leggere.
“Solo Un Grande Sasso” dei Verdena era il disco del momento. Avevo già visto su MTV il videoclip di “Spaceman“, e ne ero rimasto rapito. I tre ragazzi di Bergamo non ci avevano messo molto, una volta usciti dall’Utero dei Nirvana, a tagliare il cordone ombelicale. Molte cose si potrebbero dire su quell’album, come ad esempio che, malgrado la presa di distanza dalla produzione di Manuel Agnelli, diventata poi un tema ricorrente in articoli, interviste, e quant’altro, il coraggio del gruppo, il loro sprezzo del pericolo, era già tutto lì. Era come se stessimo vedendo, citando Gadda:
un fiore ancor chiuso e un po’ raggelato dall’aurora dischiudersi
Sfogliando la rivista, oramai sepolta nel Cimitero Immaginario delle Edicole, l’occhio mi capitò su una breve intervista rilasciata dalla band. Ricordo che Alberto, alla domanda “qual’è il brano che reputi più sexy?“, rispose “Scentless Apprentice“, e poi, riguardo “La Morte della Musica“, altro tema ricorrente, più o meno dalla nascita della carta stampata, disse che mai e poi mai sarebbe potuta morire un’entità che vive su un pentagramma dalle infinite variazioni. E bravo Alberto.
Il percorso tracciato sin qui dai Verdena ne è la testimonianza: mai un disco inferiore, o anche solo uguale al precedente. Mai un ripiegamento su facili soluzioni, solo una costante volontà di superarsi, in nome della variazione. Il problema non è il pentagramma, ma chi non sa più dargli colore. Inutile aggiungere che la musica, a lungo andare, sta avendo la meglio anche sulla carta stampata. Come disse il traduttore del titolo originale dell’ultimo film di 007 con protagonista Pierce Brosnan: “La Morte può attendere”.
Reduci dalla trionfale esperienza di “Wow“, vero e proprio spartiacque che segna un punto di non ritorno, concentrando in ottanta minuti la caotica evoluzione artistica del gruppo, i Verdena non si sono adagiati sugli allori, e hanno lavorato sodo. Adesso è il turno di un altro viaggio, non meno stimolante di quello passato.
Simile allo Sprawl che colpisce le periferie, rendendole mucchi disomogenei di fantasmi post-industriali, o di baracche scompagnate che si rincorrono a macchia di leopardo, senza una vera armonia, la musica dei Verdena, che nasce dall’isolamento, riflette un caos interiore che è tutto cittadino, metropolitano, forse mondiale. Sono gli spettri che si agitano nelle nostre vite accatastate e spiaccicate. Un umore del tempo che si aggira, che si erge alle porte di ogni città, come un infernale biglietto da visita. Forse sono queste le vere “Canzoni Da Spiaggia Deturpata”, poiché sanno esprimere, nella feroce alternanza di spunti eterogenei che si rincorrono, anch’essi, a macchia di leopardo, il senso della precarietà, dell’abbandono. O forse del Dionisiaco? Bhe, sono temi troppo vasti da affrontare, persino per uno come me, laureato presso l’Accademia dei Tabagisti & dei Cultori dei Cibi Fritti.
La nuova psichedelia è forse una nevrosi segregazionista, che assorbe lo smog della civiltà, per poi risputarlo fuori, come un mare nero. E come s’infuria!. Parola dei Verdena. Nell’incedere incerto delle nostre vite, dove si scagliano pietre contro fabbriche in disuso, fra nude praterie circondate da mostri urbani, è piovuta un’oscura cattedrale, di nome “Endkadenz”, che sembra l’opera di un architetto visionario.
“Ho una fissa” sgombra subito il campo da eventuali dubbi. La fissa dei Verdena è più che evidente ormai: vogliono fare le cose come dicono loro. Davvero il minimo per degli artisti, voglio dire, siamo dalle parti dei requisiti fondamentali, eppure al giorno d’oggi non è affatto scontato. In più mettici che i Verdena, facendo ciò che vogliono, e già da un bel pezzo, almeno da “Requiem” in poi, realizzano universi sonori in cui svettano, al di sopra di ogni cosa, nevrosi compresa, il brivido dell’estro, e la gioia del comporre. L’amore per la musica, a farla breve.
Piovono pietre fin dall’inizio. Sono i bassi di Roberta Sammarelli, che lanciano sassate, ed è bene precisarlo, solo grandi sassate. Tanto ci pensa Luca Ferrari, col suo drumming spasmodico, a ribattere, e quando serve a schivare. Brevi squarci, di relativa quiete, ospitano i primi sprazzi lirici di Alberto Ferrari, ma è solo la quiete che anticipa il caos, e la tempesta di sabbie mobili che ci aspetta.
Aprirei una piccola parentesi sul ruolo che gioca il canto, in questo caravanserraglio di delizie urticanti, perché è vero che il posto occupato dalla voce, nel mix ipersaturo, fa sembrare quasi che le parole del Battisti di “Abbracciala, abbracciali, abbracciati” le possa capire persino un morto, e per giunta distratto, ma è anche vero che questo non danneggia affatto la resa dei brani, anzi, è uno dei punti di forza.
Si sa, gli spesso bistrattati testi del Signor Verdena hanno come scopo principale quello di sposarsi con la musica. Ed è un matrimonio riuscito. Un felice sposalizio fra gli spettri di una mente ingarbugliata. Raramente si riesce a capire, con assoluta chiarezza, chi stia dicendo cosa e soprattutto a chi. Si galleggia, si fluttua in un mare di frasi da prendere così come sono: parole fatte musica. Questo non vuol dire che i testi siano del tutto privi di senso, al contrario: ad ogni nuovo ascolto, nascono nuove suggestioni. Come è giusto che sia in un racconto musicale dove è il sentimento ad avere la meglio sulla ragione.
Però, c’è anche da dire che, mai come in questo caso, i titoli dei brani assumono una valenza ironica, e paradossalmente programmatica: “Puzzle“, “Un po’ esageri“, “Contro la ragione“, “Inno del perdersi“, “Alieni fra di noi”. Quasi che i Verdena abbiano voluto rimarcare, giocosamente, la propria estraneità rispetto agli altri, rispetto a tutti. Ed estranei lo sono davvero, come un quartiere in cui mai avresti pensato d’imbatterti, girovagando per la grande metropoli. E invece sta lì, per attirarti nella sua vertigine, lontano dai semafori. Del resto, i dischi dei Verdena stanno assumendo, via via col tempo, i connotati di un nebbioso labirinto barocco, il cui tragitto sembra snodarsi attraverso linee dettate più dal sogno che da qualsiasi geometria razionale.
Strati sonori che si accavallano, voci sospese sulle crepe di un terremoto (“Derek“, capolavoro del disco, e, sono pronto a scommetterci l’apparato riproduttore, futuro cavallo di battaglia in sede live), inaspettate, per quanto fugaci, introduzioni pianistiche (“Contro la ragione“), spiritosi starnazzi di chitarra elettrica (“Sci desertico“), ballate intimiste, ma sempre e comunque sull’orlo della follia (“Nevischio“), grattacieli di malinconia, che volano appena più basso, rispetto all’era “Wow” (“Rilievo“).
Un disco che, per alcuni versi, porta alle estreme conseguenze il discorso intrapreso quattro anni fa. Un discorso che non vedevamo l’ora venisse proseguito. I brani qui presenti, che insieme formano solo il primo volume di un dittico che vedrà il suo completamento nei prossimi mesi, sono frutto di una lunga scrematura, che ha costretto il trio bergamasco a tagliare, cucire, e rielaborare ore ed ore di jam sessions. Il risultato è forse l’album più ostico che i Verdena abbiano mai composto, ma anche quello che probabilmente, alla lunga, darà più soddisfazioni all’ascoltatore. Non lasciatevi ingannare dal singolo “Un po’ esageri“, che potrebbe, anche se a torto, far presagire una svolta un po’ più facilona, quasi da “College Rock”. Come è ormai da tradizione per il trio, i singoli, da “Spaceman” a “Luna”, fino a “Muori Delay”, non sono che specchietti per allodole. Servono ad indorarci la pillola. Ma la medicina all’interno è di gran lunga migliore dell’involucro.
Il talento con cui i Verdena riescono a spaziare, facendo su e giù attraverso le superfici decennali del rock, alla stregua di uno Stratonautilus, incorporando la lezione psichedelica di Beatles, Syd Barrett, e Flaming Lips, e l’anima del pop d’autore italiano, ha dell’incredibile.
Ma quella storia della memoria da elefante?
Conservo ancora quest’immagine: quattro anni fa, camminavo lungo Viale Jonio. Avevo in cuffia “Le scarpe volanti“, e mentre ascoltavo parole come “Polka e Giudei, fai felice chi sei” mi perdevo nei fumi e nelle nebbie di un pomeriggio invernale, al calare del tramonto. Una strana canzone, in uno strano pomeriggio. E la sensazione che in qualche modo bastasse solo questo, intendo dire, che non mi servisse nient’altro, in quel momento, che è già un lontano ricordo.
Da qualche parte, nel disco, mi è parso di sentire il basso elettrico e la voce di Alberto che nuotavano nel fiume Eufrate, quello dei Pixies, altri maestri della vertigine e dell’inconscio. C’è un insegnamento che si può trarre dall’avventura dei Verdena? Forse che la vita, come la scrittura, e come la musica, puo essere suscettibile d’infinite variazioni, anche se il tempo, prima o poi, metterà la parola fine, perché il tempo, si sa, gioca brutti scherzi a tutti quanti. A tutti. Non ai Verdena.