Several masks, to last the year,
makes life dance, right out of me.
Attitudine e visual:
Pare che i fiocchi bianchi questa volta abbiano favorito l’evento: l’anno scorso al Padova Summer Student Fest, una massiccia dose di pioggia, unita anche ad un’organizzazione un po’ improvvisata avevano lasciato i Trust in albergo, annullando il live e lasciando a tutti gli avventori i vestiti bagnati ma la bocca asciutta.
Questa volta l’atmosfera pare notevolmente più frizzante nonostante i geli climatici e fisiognomici di certi figuri dall’abbigliamento carnevalesco che richiama un Batcave mai visto o un Blitz mai sentito nominare. Cambi palco con musica di accompagnamento davvero ben selezionata per un pubblico che si accalca fin da subito sotto il palco per accaparrarsi le prime file. Sulle note finali di “Deep Blue” dei Ladytron le luci si tingono appunto di azzurro e i laser a colonna brillano di bianco in un mondo di fumo che prepara l’ingresso ai Trust.
Audio:
L’impianto sonoro del Locomotiv rispecchia perfettamente le potenti pulsazioni 80s di tutti gli act sul palco. La resa dell’album di debutto è stata amplificata all’ennesima potenza dando perfettamente risalto ai synth e allo stesso tempo enfatizzando i roboanti colpi delle percussioni. Persino i pezzi del nuovo Joyland, dal vivo acquisiscono tutta un’altra valenza anche per chi, come me, aveva storto il naso durante l’ascolto casalingo.
Setlist:
Si parte con “Bulbform”, iniziano le morigerate danze del pubblico che si concentra sull’esibizione live dei nostri: praticamente impeccabile. I synth sono potenti e la drum-machine pulsa riempiendo il locale. Robert, rasato e con le sembianze di un rettile, si trova perfettamente a suo agio muovendosi sulle orme di un improbabile Ian Curtis alle prese col dancefloor. I nostri rispolverano quasi tutto l’album di debutto: “Sulk”, “Chrissy E”, “Gloryhole” e la doppietta “Shoom”/”Dress for Space”. Sono tutti in visibilio: gli ascoltatori dal look più sobrio ballano con chi ha una doppia cresta rosa; una valanga di lunghe cosce in calze a rete sgambetta entusiasta. Sulle note di “Geyron” e di “Peer Pressure” diverse sono le mani che si alzano ad effetto arcobaleno, in un gioco di sguardi e di risate collettive. Nulla di così lontano dalle reazioni riscontrabili ad un concerto di Claudio Coccoluto o Gigi D’Agostino. In ogni caso un ottimo responso.
Momento Migliore:
La conclusiva “Joyland” durante la quale giuro di aver sentito la gente che cantava, inquadrandola perfettamente: “Dr.Jones” degli Aqua.
Pubblico:
Un audience praticamente divisa in due: una valanga di darkettoni con maglie a rete, pantaloni in latex o leggings e New Rock, mentre dall’altra parte normalissimi parka verdi e giacche a vento sorrette da qualche occhialetto e barbe lunghe di un paio di settimane. Pubblico femminile ovviamente vincente: complici tutti i vari corsetti, tacco-12, bustini e calze a rette su make-up perfettamente inquadrati al genere. La coesione, invece, cambia quasi improvvisamente di pari passo con i potenti tonfi dei nuovi brani, durante i quali entrambe le frange del pubblico ballano in perfetta sintonia.
Locura:
I Welcome Back Sailors, quartetto dreampop italiano dal massiccio uso del vocoder. Vestito sgargiante per la tastierista/bassista: una specie di Erykah Badu nostrana con una bellissima vestaglia/kimono nero e oro che ricordava un po’ la Ruggiero degli anni ’80. Un po’ meno il frontman che, oltre a strizzare troppo gli occhi ai Daft Punk e ai Washed Out, faceva strabuzzare i nostri a suon di polo e New Balance ai piedi. Davvero ottime melodie, ariose ed estive intervallate da un paio di musicisti che passavano da uno strumento all’altro. Peccato per la voce, talmente robotica da stridere con tutto resto della strumentazione. Synthpop da tramonto, pulsazioni 80s spensierate, spumeggianti mix fra Empire of the Sun e College, ma davvero troppo vocoder.
Conclusione:
L’impressione è diventata questa: prendete un centinaio di (più o meno) dark e buttateli al Festivalbar ‘98, lasciateli macerare in un dance floor colmo di umorismo italiota, vecchie hit dei Datura, Alexia e Double You, utilizzate synth fin troppo eurodisco e poco Batcave. E scoprirete quanto (tanto), questo strano (ma forse neanche fin troppo) mix , possa piacere.