Spoiler alert
L’inaspettata virtù di un’opera programmaticamente audace come Birdman, non sta solo nel riscatto liberatorio dalla secche di una megalomane, autoassolutoria e compiaciuta ignoranza da studio system – schernito a mani basse, nomi e cognomi, tra un’attorialità sacrificata alle tute del cinecomix e stelle in disuso smantellate a colpi di nasi rifatti e botulini di sperma suino. L’originalità, sulla frenesia trascinante del piano sequenza unico che scansa la trappola delle unità aristoteliche come nel Rope hitchcockiano, si annida nella messa in scena fluida di Iñárritu. Che, scandita dagli insistiti martelli battenti del drum score di Antonio Sánchez, riesce – anche meglio del Charlie Kaufman di Synecdoche, New York – a trasformare un teatro, palco e segrete stanze, in un’ingarbugliata architettura cerebrale, sconnessamente sinaptica. Abitata, agitata e attraversata dai fantasmi di un ego smisuratamente sgonfio eppure fecondamente prolifico. Avvitato su voci e apparizioni che affastellano il proscenio interiore disastrato di Riggan Thomson, alias Michael Keaton, ex-supereroe alato in picchiata verso il dimenticatoio.
Perché se la storia è quella – tutta metacinematografica – della celebrità decaduta che azzarda la risalita, pubblica e privata, nel personale adattamento di un racconto di Raymond Carver (What We Talk About When We Talk About Love), sono molti e decisivi gli indizi che fanno propendere per un registro completamente psicanalitico. O di «super realismo» della soggettività, per usare l’etichetta affibbiata da un recensore alla pièce. Tale per cui tutto il film diventa leggibile come una lunga, allucinata ed estenuante seduta terapeutica di Riggan. Auto-ipnotizzato in una catarsi levitante (l’immagine in apertura). Rehab identitario perfezionato con ripetute rehearsals di una personalità smembrata. Dentro un film egocentrico per struttura, prima che nello spirito. La continuità spazio-temporale del piano sequenza setaccia in successione l’ipertrofia immaginifica di Riggan, le compars(at)e del suo subconscio: compagna, figlia ed ex-moglie, la triade dei conflitti irrisolti; il Jake di Zack Galifianakis, burlesco e scrupoloso Virgilio della coscienza assistente; la critica Tabitha Dickinson, proiezione castrante e ammonitoria di inestinguibili colpe passate. Dislocate fra soglie, entrate e uscite da un ego smanioso di adorazione incondizionata. Perlustrate dal desiderio di Riggan di uscire da(ll’ombra di) se stesso.
Il suo rinchiudersi fuori per guardarsi dentro dall’esterno – la scena chiave dell’uscita-rientro a teatro – senza farsi confondere con l’onnipresente simulacro-nemesi (Birdman). Una sostituzione di sguardo sancita dall’irrequieto Mike Shiner di Edward Norton– sorta di doppio a briglia sciolta, impudico ed eccessivo di Riggan, che infatti ne ripete le invenzioni, finendo in mutande tra la platea- nel confidare alla giovane Sam di volerle cavare gli occhi per impiantarseli e osservare il mondo da un altro punto di vista. Lo sguardo della cinepresa, che salda, sovrappone e differisce temporalità diverse nella sinuosa circolarità delle panoramiche a 360°, è (de)legato agli andirivieni del mondo percettivo di Riggan. Spaziando e spiazzando nei pedinamenti, la Steadicam si muove con lui, anche quando lo perde di vista. Perché senza di lui spesso non si muove affatto. Come avesse difficoltà a girovagare senza averlo puntato nel radar. Stazionando immobile per alcuni secondi, a lato del palco o al fondo di un corridoio, in attesa che il personaggio arrivi a sbloccare il movimento, riprendendo in mano il procedere dell’inquadratura.
Anche il comparto sonoro sembra defluire direttamente dai sommovimenti di Riggan. A volte, gli inserti del drum score partono come tracce paradiegetiche per mostrarsi solo successivamente strati riconducibili al tessuto narrativo (quando Riggan esce in strada diretto al bar con Shiner, o quando scende scale e corridoi prima dell’ultima entrata in scena). Fin qui niente di nuovo. Non fosse che la doppia installazione del batterista nel profilmico – si tratta in realtà di Nate Smith, amico di Antonio Sánchez, preso di peso e posto sul marciapiede e in uno stanzino ad eseguire lo score, in presa diretta o in video playback – funziona non tanto per ancorare il punto d’origine della fonte sonora. Come vettore di realismo trasparente svelato nelle pieghe dell’inquadratura. Ma si pone al contrario come l’ennesimo fantasma prodotto dall’immaginazione pungolante di Riggan. Messo lì apposta per lui – non si spiegherebbe altrimenti la presenza fuori contesto – per scandirne le tortuose e mirabolanti fluttuazioni del paesaggio interiore. Allo stesso modo, i tamburi della banda itinerante e le urla della folla lo aspettano all’esterno del teatro per metterne a nudo la condizione precaria e avvizzita nell’impero delle visualizzazioni virali.
Riggan manovra a sua discrezione anche le piste audio. Incrementando o attutendo fills e pattern alternati di cassa-rullante come trascrizione sonora di sussulti e pause in uno spartito emotivo sballottato. Tra micro-climax drammatici in crescendo e improvvisi vuoti di tensione. La vera tele/psico/pirocinesi di Riggan non è tanto la facoltà di spostare e far cadere oggetti, ma il potere divino di intervenire sugli strumenti del linguaggio audiovisivo (il suono, il movimento). È il caso del roboante lirismo da cinecomix nella sequenza del volo sulla città. Esercizio ed esorcismo onirico in cui Riggan insegue il suo personale richiamo delle sirene. Catturando da sé nell’aria, con un semplice schiocco di dita, la giusta tonalità per il dominio ascensionale.
Ulteriori segnali di una ricognizione tutta introspettiva non fanno che accumularsi, seguendo analogie ricorsive. Si prenda il fool scespiriano che recita a gran voce i versi del Macbeth sul marciapiede. Figura estemporanea, piazzata lì implausibilmente, come lo street drummer, solo per il passaggio di Riggan. Per offrirgli una «gamma di interpretazioni» (quasi le stesse parole usate in precedenza da Shiner, a conferma della natura di variante distorta e rielaborata dall’inconscio di tali figure). Inscrivendo l’impianto filmico e l’avventura di Riggan, a ulteriore riprova, sotto il segno dell’inconsistente racconto di un idiota
«it is a tale. Told by an idiot, full of sound and fury, Signifying nothing»
Il finale è altresì ricco di sottotracce, su tutte la maschera bianca ortopedica sul volto di Riggan. Davvero simile a quella che campeggia, con la scritta Phantom, sul cartellone dirimpetto al teatro, affacciata sulla stanza di Riggan. E ancora il letto d’ospedale circondato da vasi e mazzi di fiori, proprio come il camerino del protagonista. Altri giochi di rifrazione. Tutto sembra suggerire che Riggan resti fermo nello stesso posto per tutto il tempo, rimasticando le medesime ossessioni. Sospeso a mezz’aria, in trance, incamerato nel suo ego, alle prese con la sofferta rimozione della sua maschera ingombrante, fantasma ora silente. Lib(e)rarsi in volo è fuggire finalmente da sé per contemplarsi dall’esterno. Per cui l’immagine della figlia affacciata alla finestra, gli occhi al cielo dapprima spaventati, quindi stupiti e divertiti, diventa un fuoricampo rovesciato. In cui è piuttosto Riggan a guardare, specchiarsi, rimirarsi da fuori, probabilmente in soggettiva aerea, nello sguardo di un pubblico finalmente estasiato – identificato con Sam, cioè colei che ne sdogana l’immagine nell’oceano di consensi dei social. Quel pubblico che ora lo vede come lui vuol essere visto, sorridendogli riconoscente, al culmine della gioia. Rivestendo di successo l’anelito espresso con l’epigrafe di Carver:
«To call myself beloved, to feel myself beloved on the earth»
Birdman non è la tragedia dell’ambizione di Icaro – del resto un intervistatore ha già certificato, citando Roland Barthes, l’inutilità del retaggio mitologico, ormai materia per spot di detersivi – ma l’ultimo volo dell’artista-fenice sulle ceneri di Hollywood.