The Sick Rose Live @Trenta Formiche, Roma, 6 Maggio 2016

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Numeri appesi al muro
, per decorazione. Tre più Zero, che in questo caso fa Trenta. Numeri di cartone, percorsi da lucine intermittenti. Un anniversario forse? Più che altro un marchio distintivo, infondo alla sala concerti del Trenta Formiche, locale romano, o meglio, associazione culturale, situata in Via del Mandrione, proprio all’inizio. A pochi passi dall’Acquedotto Claudio, e anche dal Pigneto.  Luogo memore di tanto cinema italiano (Pasolini, Rossellini, Visconti, e altri), adesso diviso fra villini e movida, fra odor di gelsomino e tanfo d’urina. Questo circonda Il Trenta Formiche, quasi nascosto, sotto la Casilina, che se sali e prendi il tram arrivi fino a Giardinetti, la patria dei The Pills. Un bizzarro crocevia fra la Roma passata e presente.

Eravamo lì per un concerto, quello dei The Sick Rose, eroici alfieri di almeno due mondi, ossia del garage e del power-pop. Anche loro crocevia di stili e di influenze variegate, da ricercare tutte, o quasi, nel mare magnum dei ’60 e dei ’70. La loro storia li precede: sei album pubblicati, solo fra quelli in studio; un culto sotterraneo, ma non troppo, alimentatosi fra l’Italia e l’estero; la collaborazione con Dom Mariani, figura di spicco della scena australiana, che ha curato la produzione dei loro ultimi dischi (“Blastin’Out” del 2006 e “No Need for Speed” del 2011). Una storia, la loro, che come tutte le grandi storie include gloria e rovine, tonfi e trionfi, fratture e riconciliazioni. Ma un motivo ci sarà se, dopo tanto tempo, Luca Re e Diego Mese, padri fondatori del gruppo, sono attualmente al timone della loro nave. E forse il motivo, la chiave, o il segreto, risiede proprio nel nome di questa creatura, preso dal titolo di una celebre poesia di William Blake. La risposta, dunque, non va cercata così lontano, ma è sotto i nostri occhi, nelle nostre orecchie. Nella malattia chiamata musica. Come il verme invisibile, che volando nella notte coglie la rosa nel suo letto, strappandola alla sua innocenza, nei versi del poeta. Una rosa malata, ma ancora viva. Malata ma innamorata. Perché amare vuol dire corrompersi, fino a sfiorire.

La circostanza ha voluto, tu guarda alle volte il destino, che in occasione dell’unica data romana del tour che celebra i trent’anni di “Faces”, l’opera prima, ristampata da poco in vinile, la band si esibisse proprio sul palco del Trenta Formiche, con alle spalle un gigantesco numero trenta. Una coincidenza mica da ridere.

Era da un po’ che i “ragazzi” mancavano dall’Urbe. E il pubblico accorso è stato entusiasta. All’inizio c’era giusto una manciata di persone, ma dopo un paio di canzoni ecco che il locale (simile a una cripta, forse in passato era una sala prove) si è riempito, lambendo il punto d’ebollizione. Scoccate le undici, sembrava che fossimo tutti tante formichine (in omaggio al locale) intrappolate in un’ascella sudata. Sembrava di stare ad un vero concerto rock, insomma.

La band, composta da Luca Re (voce, tamburello a sonagli), Diego Mese (chitarra, autore degli assoli), Valter Bruno (basso, uguale all’attore Francois Cluzet fra l’altro), Giorgio Cappellaro (chitarra ritmica), Alberto Fratucelli (batteria e cori, al posto dello storico Giorgio Abà, ormai dimissionario), e in più uno scatenato signore che planava, letteralmente, coi polpastrelli sull’organo,  la band, dicevamo, non si è risparmiata affatto, proponendo in poco più di un’ora una scaletta serrata e senza pause, alternando brani dal suddetto “Faces”, b-sides di singoli, e cover di altri gruppi. Il tutto con impeto più punk che garage (stavolta il power-pop è rimasto a casa), in uno show che ha danzato assieme ai fantasmi dei The Who e degli Mc5, e che ha avuto in Luca Re un mattatore assoluto. Re di nome e di palco.

Un frontman così, da queste parti, si vede assai di rado. Meno movenze sinuose da Iguana (quella che sappiamo noi), ma con lo scatto e l’aggressività di un Roger Daltrey d’annata. Quando l’abbiamo intervistato prima del concerto, ci siamo rivolti a una persona posata ed esente da qualsiasi tratto di nervosismo. Appena è apparso in scena, mentre il set veniva introdotto da una specie di “Jump” dei Van Halen in versione Farfisa, è avvenuta la trasformazione: salti, piroette (profetico in questo senso il richiamo a “Jump”), mosse di kung-fu . Colpi calibrati al millimetro, che spesso hanno sfiorato di un soffio il volto degli altri musicisti. Tenuta vocale impeccabile, malgrado l’evidente sforzo fisico. Più di cinquant’anni, e un’abilità performativa che non teme confronti. Si accettano scommesse.

La sezione ritmica ha viaggiato su dinamiche molto intense per tutta la durata del live, come del resto esige lo stile di “Faces”, e in generale del primo repertorio della band. Perciò tanto, tanto volume. Pochissimi i rallentamenti. Diverse invece le chicche presenti in scaletta. Da una “Time won’t let me” dei The Outsiders, fino alla conclusiva “You’re gonna miss me” dei The 13th Floor Elevators, perla indiscussa del genere. E di certo i brani dei The Sick Rose non hanno sfigurato accanto a questi classici. Prendiamo ad esempio una “Nothing to say” o una “Night comes falling down”, tanto per citarne un paio. Un modo, questo, per ascoltare alcuni fra i migliori pezzi anglofoni mai realizzati da una band italiana, per la precisione di Torino, e insieme per ripassare una serie di episodi fondamentali nella storia del rock, talvolta dimenticati, se non addirittura sconosciuti. E pensiamo soprattutto alla cover di “Girl on the train” dei Liverpool Echo realizzata dalla band.

In sostanza, abbiamo sculettato come non mai, in questo 6 Maggio che ci ha visti alle prese con una band formidabile, bagnata nelle acque dell’estetica sixties, e più punk di tanti sedicenti gruppi che si vedono in giro, soprattutto nel circuito underground. Momenti clou: il calcio sferrato da Luca al bicchiere di birra (tranquilli, era di plastica) posato a bordo-palco dallo staff, prontamente sostituito. E poi il suo salto off-stage, con cavo e microfono al seguito, per pogare insieme al pubblico (decisamente trasversale, sotto il profilo anagrafico) . Per una volta, possiamo concederci il lusso di sfanculare la parola “revival”, e custodire un solo, evocativo, fermo-immagine: Luca Re, sospeso a mezz’aria, che con un calcio sfiora il mento del chitarrista, e sullo sfondo il numero trenta, come una luce fissa. Un colpo calibrato al millimetro. Dare il massimo in uno sputo di spazio, incuranti del tempo e dei decenni che scorrono. Se c’è una lezione da imparare, infondo, è solo questa.