Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
08/04/2016 | woodsist | Woods.com |
Find the time to separate your work life from relief/ Constellations in the summer sky/ In a world of shit/ Let’s tune out tonight (Politics Of Free)
Non avremmo potuto trovare immagine più azzeccata di questa per descrivere al meglio la musica dei Woods: chi li conosce, infatti, sa bene che ascoltare un loro disco significa immergersi in un immaginario libero e felice fatto di cappellini da baseball e polo a righe, barbe un po’ hipster un po’ hippie, scenari Americana style e canzoni dalla struttura e dal sapore squisitamente pop infarcite di suggestioni psych-folk, in cui è l’estrema cura dei dettagli e dei passaggi armonici a renderle molto spesso brani ricchissimi per palati fini.
La band di Brooklyn che dal 2005 ad oggi ha sfornato ben nove dischi – esattamente come accadeva nell’epoca d’oro da cui sembrano usciti fuori – ha intrapreso da qualche tempo un percorso di lenta ma graduale maturazione che l’ha portata al punto più alto un paio di anni fa, con “With Light and With Love” album con cui finalmente si scrollava di dosso l’etichetta di “lo-fi da cameretta” che l’aveva caratterizzata fino ad allora. Jeremy Earl e soci registravano per la prima volta in un vero e proprio studio professionale, riuscendo così a tirar via quella patina di opacità che rendeva la loro musica un semplice passatempo con cui allietare incidentalmente anche le orecchie altrui, frutto del caso e delle faccende ordinarie della vita. Progressivamente i dischi dei Woods si sono impreziositi sempre di più, consolidando al contempo la loro peculiare attitudine a una scrittura fresca e convincente.
Con quell’approdo sembravano arrivati, dunque, a un punto di non ritorno, massimo compimento della loro tensione artistica; e invece ecco arrivare questo “City Sun Eater In The River Of Light”, disco spiazzante capace di mostrare un lato nuovo dei Woods e di rimescolare le carte in tavola. Non che ci siano state rivoluzioni radicali, intendiamoci: ma se fino ad ora tutto quello a cui associavamo i Woods era legato a un immaginario di facile psych-indie-folk bianco dalle tinte wilsoniane, con questo nuovo lavoro il quadro si fa più affollato di suoni e suggestioni legate ad altri mondi.
Già la traccia di apertura e primo singolo “Sun City Creeps” con i suoi fiati e i suoi ritmi afro-jazz rivela chiaramente la grande voglia di percorrere territori inesplorati, come se la band di Brooklyn si fosse spostata dai suoi consueti spazi fatti di relax da gita fuori porta a nuovi scenari più cittadini e metropolitani, richiamando alla mente i ritmi frenetici tipici della grande mela. Il titolo del disco, infatti, si riferisce proprio a questo, simbolicamente a sottolineare che è il meticciato umano e sonoro a scandire molte delle canzoni in esso contenute: The Other Side, Creature Comfort, The Take, Can’t See At All sono tutti pezzi figli del soul, del reggae e persino dell’afro-beat, tanto da sporcare di sensualità black una musica che più white-hipsters non si può come quella dei Woods. La continuità del loro percorso però in fondo sta tutta in una sorta di leggerezza da festa sulla spiaggia, in cui questo nuovo gusto tropicale non guasta per niente, anzi. Non mancano i brani più in linea con la loro produzione del passato, a partire dalle melodie country della rassicurante Morning Light, passando per la più easy-listening e dal refrain irresistibile Politics Of Free per arrivare al brano di chiusura Hollow Home con le classiche chitarre wah-wah da party hawaiano e ciabatte infradito. Ma la vera perla del disco è il motorik-pop di I See In The Dark, non a caso scelta come secondo singolo. Unica vera pecca dei Woods rimane a nostro parere il falsetto di Earl, troppo uguale a se stesso in tutte le tracce, troppo poco credibile per una band così deliziosamente west-coast, e ci chiediamo cosa sarebbe dei Woods con un altro cantante più capace di sorreggere un impianto musicale così raffinato.
In definitiva, “City Sun Eater In The River Of Light” è un lavoro assolutamente elegante e godibile, che conserva la classicità e freschezza delle melodie psych-folk tipiche dei Woods colorandole di un tocco esotico sorprendente, confermando lo stato di grazia nella scrittura di Jeremy Earl e segnando un passo avanti corposo nella produzione della band di Brooklyn.