Afterhours – Folfiri o Folfox

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“La vita comincia a 50 anni”, recitava un vecchio spot televisivo. E forse basterebbe questa frase per riassumere “Folfiri o Folfox”, il nuovo attesissimo album degli Afterhours. Stavolta senza Giorgio Ciccarelli e Giorgio Prette, compagni di lungo e lunghissimo corso. A rinfoltire la squadra, Stefano Pilia (già chitarrista nei Massimo Volume) e Fabio Rondanini (già batterista nei Calibro 35). Confermata invece la presenza di Roberto Dell’Era, Rodrigo d’Erasmo, e Xabier Iriondo (storico membro dimissionario, rientrato giusto in tempo per il precedente “Padania”, Targa Tenco come album dell’anno 2012). Ma al di là degli addii e dei ritorni, al centro della scena rimane sempre lui: Manuel Agnelli. Che è un po’ come Robert Smith nei The Cure, o come Billy Corgan negli Smashing Pumpkins. Gli Afterhours sono e rimangono una sua creatura, modellata a immagine e somiglianza del cantore meneghino, classe 1966. Sempre e comunque.

Una creatura cangiante, quindi. Suscettibile allo scorrere degli anni (quasi trenta dalla nascita della band). Perciò, se “I Milanesi ammazzano il sabato” (2008) racconta di un Agnelli diventato padre, accostando in seconda lettura la metafora del parto alla composizione stessa dell’album, mentre il disilluso “Padania”, spacciato spesso come il disco “politico” del gruppo , è quasi un sequel di “Quello che non c’è” (2002), o al limite un “alter ego” nerissimo dell’ariosa “Il paese è reale”, presentata al Festival di Sanremo 2009, il qui presente “Folfiri o Folfox”, da par suo, rappresenta un punto di rottura (forse l’ennesimo) all’interno della discografia targata Afterhours.

Stavolta non si tratta di Agnelli che diventa padre, ma di Agnelli che seppellisce il proprio, spentosi a 77 anni per via di un tumore. Il titolo del disco, infatti, cita due diversi regimi di chemioterapia, e in più nei testi ricorre sovente il tema del “rimedio”, inteso come cura aggressiva contro un male terminale, ma anche come lotta (o rivolta anti-ideologica?) contro la “patologia” del  “non-vivere” (quello della “patologia”, in questo senso, è un concetto ben radicato nella poetica agnelliana, a tal riguardo si consiglia di ripassare “Ci sono molti modi” da “Ballate per piccole iene” del 2005). Una cura atroce per rimandare la fine. Un balsamo corrosivo per superare la notte. Distruggere per costruire, e non “Costruire per distruggere”, come nel precedente “Padania”. E proprio come la lettera “o”, che unisce e insieme contrappone i nomi delle due terapie, “Folfiri o Folfox” nel catalogo degli Afterhours funge da congiunzione fra presente e passato (prossimo e remoto), ma al contempo ci mette di fronte a una scelta (obbligata, inevitabile: non vi è alternativa al di fuori della cura). Una congiunzione disgiuntiva, come da dizionario. Un bivio, un aut-aut. Finanche un ultimatum.

Adesso, diamo un po’ i numeri: è un disco doppio, suddiviso in due parti (“Folfiri” e “Folfox”, appunto). L’ottavo album di inediti (se escludiamo i primi tre cantati in inglese). Diciotto brani in totale. Nove da una parte e nove dall’altra. Sedici canzoni più due strumentali, ad essere pignoli. Sedici canzoni che includono, come da prassi ormai per la band, una quota di sbilanciamento rock (un esempio può essere la vecchia “Ossigeno” da “Germi” del 1995), una quota di sbilanciamento pop (alla “Non è per sempre” (1999), per intenderci), e una quota di sbilanciamento weird (tipo “Senza Finestra” da “Hai paura del buio?” del 1997). Diciamo questo in via del tutto schematica, tenendo conto del fatto che lo stile degli Afterhours spesso ingloba tutte le suddette sfumature nella stessa porzione di musica, e che si è anche arricchito nel frattempo, ma ci serve come premessa per dire che in questo “Folfiri o Folfox”, in sostanza, ci vengono proposti in quasi egual misura un gruppo di brani più o meno aggressivi, un gruppo di brani più o meno melodici, e un gruppo di brani più o meno sperimentali. Ma parliamo nello specifico di quello che troviamo nella prima e nella seconda parte dell’opera.

Folfiri: la prima parte, come di consueto nei dischi degli Afterhours, è la più riuscita. Si inizia con “Grande”. Ed è subito un abbrivio struggente. Solo una chitarra, pochi accordi (che armonicamente richiamano “Nuotando nell’aria” dei Marlene Kuntz), e un’intermittente nebbia shoegaze. Poi l’ingresso della voce che ci coglie in controtempo, e l’irruzione, davvero “catartica”, degli altri strumenti (un avvio per certi versi simile, se non di tono, quanto meno strutturalmente, alla bellissima “Metamorfosi”, posta in apertura di “Padania”). A seguire, “Il mio popolo si fa”, un passaggio repentino dal sogno all’incubo, da “La storia siamo noi” a “L’orrore siamo noi”. Una rassegna indiavolata di mali (di cancri) moderni e nostrani. Fin troppo retorica (dal trinomio “Dio, Patria e Famiglia” a “Dio, Fortuna e Trans”). Quasi una “Si può” di Giorgio Gaber (da “Libertà Obbligatoria” del 1976) aggiornata alle dissonanze chitarristiche di Iriondo, e al basso sludge (giusto qui) di Dell’Era. Una colata di bile sorniona, magari un po’ indigesta, sul nostro paese e sul nostro destino (che è proprio “ino-ino-ino”, come suggerisce l’eco vocale in chiusura). “La giacca di mio padre”, dopo due brani così pieni e potenti, svuota il tutto con un delicato piano jazz, e una parentesi lirica che ci avvicina al senso del disco: “Tuo padre è nel suo letto. Tu guardi la tv. E ti chiedi se hai risposto ai suoi occhi con i tuoi”.

“Non voglio ritrovare il tuo nome” è un’incantevole ballata pop-psichedelica alla The Byrds, sulla scia di “Riprendere Berlino” ed “Il paese è reale”, mentre “Ti cambia il sapore” ci riporta indietro ai tempi di “Elymania” (ma con un sapore proprio diverso, diciamo peggiore).”San Miguel” riesce a contendere alla succitata “Senza Finestra” la palma di “brano degli After da non ascoltare al buio, sennò te la fai sotto”, muovendosi negli stessi territori di Scott Walker e del suo “Bish Bosch” (“in una terra di predatori”). “Qualche tipo di grandezza” è una quota rock che subentra alla quota weird, efficace ma non memorabile, con un sospetto meta-testuale inerente all’attuale polemica sulla partecipazione di Agnelli ad X-Factor (“non ti vuoi vendere, io lo farei … ti brucia sulla pelle ormai”). “Cetuximab” (il nome di un farmaco antitumorale) è un brano strumentale che accende i riflettori sulla new entry Fabio Rondanini (lui sì che brucia sulla pelle, quella della batteria). E a suggello di questa prima metà, la ballata “Lasciati ingannare (una volta ancora)”, sorella minore di “Nostro anche se ci fa male” da “Padania”.

Folfox: Si volta pagina. Lo si fa con “Oggi”, un bozzetto da camera che premia più l’arrangiamento che la canzone, più il suono che l’emozione. La title-track sembra scritta cucendo le frasi sconnesse (ma non insensate) di un malato nel suo letto d’ospedale, e possiede la stessa schizofrenia vocale, fra alti estremi e bassi estremi, di “Fosforo e blu” (sempre da “Padania”), ma è un incubo statico, senza esplosioni liberatorie, e con punte di feroce ironia (“c’è un perché le zanzare non mi mordono più ormai”). “Fa male solo la prima volta” è una “My Sharona” senza spensieratezza, ma che di certo funzionerà alla grande dal vivo, insieme a “Né pani né pesci” (traccia n.5), che si aggira più o meno fra le pieghe di “Dentro Marilyn” e “Non sono immaginario”, senza lambirne la bellezza neanche per sbaglio. “Noi non faremo niente”, la quarta traccia, è un altro numero sperimentale, di svuotamento dello spettro sonoro, fatto di arpeggi di chitarra doppiati dalla melodia vocale, e con i soliti rumori stranianti per destare l’ascoltatore dal sonno. “Ophryx” mette in risalto il violino elettrico di Rodrigo d’Erasmo in modo suggestivo. “Fra i non viventi vivremo noi”, invece, si candida a nuovo classico del gruppo, poiché fra le specialità di Casa Agnelli ci sono anche le invettive contro gli alternativi ottusi e inconcludenti (vedi “Siete proprio dei pulcini” da “Germi”, o “Sui giovani d’oggi ci scatarro su”, da “Hai paura del buio?”). In questo caso sotto tiro ci sono la fanbase più oltranzista e il post-punk “che ti ha chiuso la testa, e rovinato la tua libertà” (detto con sublime senso satirico da chi agli inizi realizzò una cover di “Shadowplay” dei Joy Division). 

“Il trucco non c’è” è una riflessione filosofica (già accennata in “Né pani né pesci”), e ancora una volta meta, sull’esistenza di Dio, sulla libertà, e sul ruolo dell’artista creatore, che fa da preludio al finale rasserenato (così pare) di “Se io fossi il giudice”, dove i dualismi seminati nell’arco del disco (Luce e Buio, Sogno & Incubo, Cura & Malattia, Dio & Nulla) vengono neutralizzati per fare spazio a una pars costruens piuttosto vaga, ma umanamente sincera (“Voglio tornare a vivere”). L’avevamo detto, insomma: la vita comincia a 50 anni.

Un disco monumentale, e tuttavia una statua di minor attrazione turistica nella città storica degli Afterhours. Non per questo, un’opera meno affascinante. Un disco che prova a rialzare la posta, senza sbancare, ma perdendo per un soffio (comunque vitale) la rinascita che c’era in palio. Perché “Folfiri o Folfox”, malgrado gli inevitabili echi del passato, non è un greatest hits in incognito, bensì il tentativo, splendidamente abortito, di rimettere in discussione il proprio linguaggio, e di osare ancora una volta. Un’opera divisa in due. Come una scissione. Come un addio. O uno spartiacque, un bivio, un aut-aut. Una particella disgiuntiva nella storia del gruppo, ribadiamolo.

Qualche nuovo evergreen, c’è da scommetterci, resterà impigliato nella rete del repertorio di punta. Ma per saperlo dovremo aspettare il tour (non quello imminente, ma del disco che verrà in futuro). E se proprio vogliamo rinfacciargli qualcosa, a Manuel Agnelli, è di averci colpito al cuore troppo presto, rispetto alla chimera della durata complessiva. Precisamente al minuto 2:48 di “Grande”, il primo brano, il migliore dell’album, a dire il vero fra i migliori di sempre. Quel “Resta un po’ a giocare con me!”, gridato a squarciagola, dolce come un abbraccio (mancato) e schiumante come una ferita, nel picco di massima intensità emotiva e sonora del pezzo. Da lì in poi, è stato tutto un po’ in discesa.

Volendo fare il punto: una line-up rinnovata, uno slalom al neon, fra luce, buio, e ancora luce. Fra il sogno, l’incubo, e il mattino dopo. Non una svolta, badate bene. Ma un intervallo di lusso, sulla soglia dell’avvenire. Infondo, è il racconto di un cinquantenne che “tenta” di abbandonare il nichilismo per non farsi fregare dalla morte. E per affrontarla sul serio, quindi, dopo averla toccata con mano, e dopo averla guardata negli occhi. Un disco dove il male è un significante che si apre a molteplici significati, ma dove alla fine, colpo di scena!, sembra trionfare il bene. Qualcuno storcerà il naso a priori, data la partecipazione di Agnelli ad X-Factor nelle vesti di giudice. Ma è proprio lui a vuotare il sacco, nel brano conclusivo intitolato (ironia della sorte?) “Se io fossi il giudice”, cantando così:

“Libero di non essere più me

Libero di non piacerti più

Libero di buttare tutto via”

Servono forse ulteriori spiegazioni?