“Mai come quest’anno”. Suona più o meno così il ritornello che ci assilla da diversi mesi. Troppo vago? Allora proviamo con l’apocalittico “Cazzo, stanno morendo tutti”. Ma tutti chi? Ma quali morti? I migliori, si intende. Le stelle dello spettacolo (cinema, musica, fate voi). Più precisamente una serie eterogenea di volti noti assurti, per un motivo o per un altro, allo status di icone della cultura di massa. Sì, ma c’è massa e massa, direte. In tal caso si potrebbe insinuare che l’antica (?) distinzione fra masscult e midcult sia ormai tramontata per fare spazio ad un unico grande massmediacult.
Tranquilli però, non vogliamo tediarvi con supercazzole filosofiche da corridoio universitario. Piuttosto vorremmo che questo nostro scritto, per quanto scriteriato sia, possa fungervi da kleenex riassuntivo. Oh no! Che tristezza! Meglio un’urna cineraria con incisioni fumettose alla Roy Lichtenstein. E che contenga, se non tutte, almeno una parte di queste celebri e celebrate polveri stellari.
Un censimento mortuario per (quasi) soli vip, o necrologio allargato con annesso sconto comitiva, che mai potrà eguagliare le vette foscoliane dei prosatori digitali che ben sappiamo, e ben leggiamo, sulle cosiddette “pagine social”. Veri e propri artisti del post “post mortem”. Alcuni eccellono a tal punto da farci penare più per loro che per l’illustre defunto in questione. Di fronte allo schermo, ce li figuriamo come ritrattisti in camera ardente, tremanti di pianto. Di nuovo, “stanno morendo tutti”. Basterebbe passare dalla terza alla prima persona plurale per spostare il discorso su un altro livello. Ma non siamo qui per questo. O non solo. Siamo qui per allestire un corredo funebre da periodo saldi de “La Rinascente”, fra manichini spettrali e borse all’ultimo grido, con l’occhio alienato del vetrinista che non ha mai messo piede fuori dal grande magazzino. Manichini spettrali: da David Bowie a Prince, da Dario Fo a Leonard Cohen. Morte perlopiù declinata al maschile. Fatto sta che mai come quest’anno, mai come in questo 2016, il trapasso è stato tanto pop. Già, così pare. Ma siamo proprio sicuri?
Noi non c’eravamo quando l’8 Dicembre del 1980, appena fuori dalla residenza newyorchese di John Lennon, la mano di Mark David Chapman schiacciò il grilletto sull’idolo del(le) folle. Uno scatto del fotografo Paul Goresh ha eternato vittima e carnefice un attimo prima del misfatto. Se questo fosse (ma infondo lo è) un thriller americano potremmo usare l’immagine a mo’ di locandina, ma è meglio parlare di frame rubato dal set: la stempiatura di Lennon, col capo chinato verso l’autografo che stava firmando (non capita spesso di siglare letteralmente la propria condanna a morte). Il ghigno paffuto di Chapman, con tanto di pappagorgia. Lo sguardo dell’omicida che tradiva tutto il suo orgasmo, e poi FUOCO. Ma lo sparo era fuori-campo. E noi con lui.
Perché partiamo da qui? Perché proprio dalla cronaca nera, manco fossimo in un ipotetico (ma neanche troppo) programma alla Real Giallo intitolato “Ho ammazzato il mio idolo”, oppure “Autografi Letali”? Che c’azzecca col piccolo annuario 2016 dei defunti superstar? Non c’entra, no, non c’entra. “Non c’entra però c’entra”, riecheggia il Nanni Moretti di “Aprile” (nella scena sui profughi albanesi morti nel mare di Brindisi, sull’assenza della sinistra italiana, sul suo mutismo dinanzi alla tragedia, quella sinistra la cui formazione politica è figlia, secondo Moretti, delle puntate del telefilm “Happy Days”, e sembra ancora oggi, ancora ieri).
Lennon & Chapman, pionieri inconsapevoli di un sodalizio fra morte e celebrità che non nasce certo con loro, ma che grazie ad essi ha oltrepassato il punto di non ritorno. La stella, la leggenda (Lennon) come banchetto appetitoso per chi ha fame di fama (Chapman). Fare fuoco per strapparne un pezzo, per cibarsene, per irradiarsi di luce riflessa. Una luce magica, ma di magia molto nera. Quando una stella muore, per rispondere al quesito posto da Giorgia nella sua melensa hit del 2013, tutti accorrono al banchetto, per accaparrarsi un trofeo glitterato, per esibirlo. Ancora Warhol e i dannati 15 minuti. Viene in mente quel film con Bob De Niro, “15 minuti – Follia omicida a New York“, appunto, dove una coppia di killer riprende le uccisioni con una videocamera per poi vendere lo scoop alle emittenti televisive. Visto? Questa escursione nel thriller a qualcosa è servita. Dunque, siamo tutti epigoni di Chapman? Chissà. Di sicuro anche noi accorriamo al banchetto, e siamo legati, senza voler generalizzare ad ogni costo, da una parassitaria smania d’attenzione.
Mamma che pesantezza! Torniamo ad allestire la nostra vetrina, che è meglio. Frugando negli scatoloni ci casca fra le mani un telescopio giocattolo di marca “Blackstar”. Era il 10 Gennaio. Quel giorno David Bowie, il Duca Bianco, Ziggy Stardust, insomma lui, è morto e risorto poco dopo aver pubblicato il suddetto disco-sarcofago, insieme al videoclip “Lazarus”. Per alzarsi e camminare ad libitum (nei nostri incubi). Quattro giorni più tardi, la dipartita dell’attore Alan Rickman avrebbe oscurato, qui nella terra dei cachi, quella di Franco Citti, volto iconico del cinema pasoliniano, anzi del cinema punto e basta (è lui a sgominare idealmente l’intera Democrazia Cristiana in “Todo Modo” di Elio Petri). Come il regista romano Ettore Scola, spentosi il diciannove, e adesso spiritello vagante, forse, dalle parti della Casa del Cinema in Villa Borghese. Memorabile il finale del suo “Dramma della gelosia”, in cui vediamo Marcello Mastroianni (1924-1996) perso nel delirio e nelle strade, in costante colloquio col fantasma immaginario della donna amata (e ammazzata). Ventiquattro ore prima di Ettore Scola spirava Glenn Frey degli Eagles, all’età di 68 anni, ritiratosi in una suite metafisica presso l’Hotel California (“such a lonely place”, mutando il verso).
Il mese di Febbraio non è stato da meno. Sempre il diciannove ci ha portato via in un sol colpo Umberto Eco ed Harper Lee. Il primo, più che per il capolavoro postmoderno “Il nome della rosa”, preferiamo ricordarlo per opere come “Diario minimo” (che contiene l’imperdibile “Fenomenologia di Mike Bongiorno”, col quale egli lavorò in Rai nelle vesti di autore), o “Il superuomo di massa”, “Apocalittici e integrati”, e per una splendida traduzione creativa dell’altrimenti intraducibile “Esercizi di stile” di Queneau. Harper Lee è invece passata alla storia per il romanzo “Il buio oltre la siepe”, un tascabile Feltrinelli in rilegatura morbida che sarà familiare a molti; nel concreto: un dramma duro e avvincente sul cancro del razzismo e del conformismo all’interno della società americana (buongiorno, presidente Trump). A Marzo abbiamo purtroppo perso, almeno noi cristiani, la figura più prossima all’incarnazione di Dio che ci sia stata donata in tempi recenti, ovvero il San Pietro interpretato dal grande Riccardo Garrone nello spot Lavazza, e poi il genio trasformista, fantasista, ed umorista di Paolo Poli. Cambiamo scena. Ancora un colpo di arma da fuoco, ma non destinato a John Lennon. Un colpo alla testa per Keith Emerson, suicidatosi a 71 anni. Del tastierista e compositore serbiamo il reperto video di una surreale chiacchierata fra lui e il regista Dario Argento sulla Terrazza del Pincio a Roma, nel meriggio assolato, quando il maestro dell’horror era alle prese con “Inferno” (Emerson ne curò la colonna sonora).
E venne l’Aprile, come pioggia purpurea, simile a macchie di rossetto sulle vetrine di negozi o teleschermi: la morte di Prince, il mistero che aleggia, altra materia per futuri scandali da immettere sul mercato. Fra i (tra)passanti quasi inosservati Karina Huff e Guy Hamilton. Il vecchio regista sussurra all’orecchio della diva mancata, sua conterranea britannica: “Lo sai? Saresti stata un’ottima bond girl”. E poi: “ti avrei coperta d’oro, come piaceva a Goldfinger”. Fa bene pensarli a braccetto, a spasso fra le lapidi del cimitero dove si conclude “Voci dal profondo” (in cui recitò la Huff) del compianto Lucio Fulci, morto nel ‘96 come Mastroianni (anche vent’anni fa dev’essere stato un annetto mica da ridere). Persino i pentastellati sono rimasti orfani del loro Gianroberto Casaleggio, guru informatico, imprenditore, teorico della democrazia diretta via web. Via anche lui, con la pioggia d’Aprile.
Davvero ci sembrò che Maggio avanzasse adagio adagio, ma ecco che ci stese nella seconda metà con la doppietta Marco Pannella-Giorgio Albertazzi. Il Politico e l’Attore. Il radicale e l’ex repubblichino. Ora mangiano assieme, in una trattoria vicino al Teatro Argentina. Il menù prevede digiuno e sigarette per il primo, monologhi a non finire per il secondo. Il 3 Giugno, il destro del K.O: al tappeto Muhammad Alì. Il 19 è stato il turno di Anton Yelchin, presente nel recente reboot di “Star Trek”, teletrasportato pure lui nel nostro necrologio di gruppo. Il 27 l’addio a Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer: gigante buono di Forza Italia, picchiatore da box-office, beniamino di grandi e piccini. La Morte, nell’estremo viaggio, si sarà ben guardata dall’alzare mezzo mignolo. A Luglio, l’ultimo ciak per vari registi, fra cui Robin Hardy (“The Wicker Man”, inquietante horror pagano che ispirò l’omonimo brano degli Iron Maiden), Michael Cimino (capolavori come “Il cacciatore” e “L’anno del dragone), Abbas Kiarostami (“Il Sapore della ciliegia”) e Garry Marshall (“Pretty woman”). Da Garry, fuoriclasse della commedia romantica basata sugli opposti, potremmo aspettarci un triangolo amoroso con protagonisti la superba Anna Marchesini (30 Luglio), Alan Vega dei Suicide (16 Luglio), e il poeta Valentino Zeichen (5 Luglio), che visse per decenni in una baracca ai margini del quartiere Flaminio di Roma, rifiutando qualunque tipo di compromesso (sociale e lavorativo). Chi la spunterà? E soprattutto, avranno mai da dirsi qualcosa? Ai costumi comunque mettiamo Marta Marzotto (29 Luglio), e per la parte del villain, ma con pochissimo screening time, il boss Bernardo Provenzano (13 Luglio), consumato esperto di pizzini e caciocavalli in latitanza.
E siamo solo ad Agosto. Funerale in divisa e fanfara per l’anziano Steven Hill, immensa maschera della serie tv “Law & Order”. Un infarto prematuro per il cinquantenne Tommaso Labranca, moderno Flaiano diviso fra gallerie d’arte e critica televisiva. Il sipario per Gene Wilder, alias Willy Wonka, alias Frankenstein Junior, ma anche zoofilo pazzo d’amore in “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere” di Woody Allen. In sua memoria, piazziamo affettuosamente in vetrina una pecora armena con reggicalze e cilindro rosso in testa. Il regista Curtis Hanson, noto ai più per aver portato sullo schermo la parabola di Eminem in “8 mile”, se n’è andato invece a Settembre, in compagnia del giornalista Mario Spezi, con le sue affascinanti e rischiose inchieste sul Mostro di Firenze. La retorica da talk-show, quella davvero immortale, era impegnata ad elaborare il lutto dell’ex presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi, mentre in data 16 Settembre ha abbandonato il proprio corpo l’esorcista Gabriele Amorth. Siamo sicuri che avrebbe fatto un figurone negli splatter aurorali di Herschell Gordon Lewis (26 Settembre).
Il 13 ottobre scorso è stata la volta del premio Nobel per la letteratura Dario Fo (fu repubblichino, fu comunista, fu grillino) venuto a mancare nello stesso giorno del Nobel per la letteratura a Bob Dylan. Carlo Petrini, durante la commemorazione svoltasi in Piazza del Duomo a Milano, ha voluto omaggiare il suo grammelot umanista, la sua arte giullaresca e onomatopeica, rievocando “La Fame dello Zanni”. Ah già, che stupido, perché questo 2016 è stato soprattutto, e come sempre, un anno di fame e di guerre, di terrorismo e terremoto, di morti in battaglia, di tumore o mannaia, e assortite calamità, che non troveranno mai abbastanza spazio nella nostra vetrina, dove sta bussando Pete Burns dei Dead or Alive, accanto a un impassibile Leonard Cohen, che ci tiene a precisare: “Sono solo venuto a dare un’occhiata”. Il Primo Novembre, a passo felpato, ci ha raggiunto Tina Anselmi col suo cursus honorum: partigiana, prima donna ministro della repubblica italiana, presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia P2. A Steve Dillon e Massimo Mongai, visto che ci siamo, il compito di comporre una graphic novel che ci sveli finalmente l’aldilà, col giusto piglio irriverente.
Alla lista si aggiunge honoris causa l’oncologo Umberto Veronesi, seguito a breve distanza, e quando ormai la saracinesca sta calando inesorabile, da Mirko Stocchetto, angelico barman inventore del Negroni Sbagliato. Perché il Paradiso non si misura in metri quadrati, ma in casse di Prosecco. Il rapper romano Cranio Randagio, già concorrente di X-Factor, si è addormentato per sempre nel buio del quartiere Balduina. Speriamo in un freestyle con Primo Brown dei Cor Veleno, scomparso alle soglie del 2016. And on and on and on. Intanto che l’Isis. Intanto che Brexit. Intanto che i Curdi. Intanto che BOOM. Intanto che la Clinton, col suo faccione a doppio fondo. Intanto che Trump, faina ossigenata. Intanto che Putin, le Filippine. Intanto che il referendum. Intanto che Sì. Intanto che No. Intanto che il mondo, noi ci fermiamo. Rattrappiti, su più fronti. La vetrina trabocca. Closing Time. La fantasia? Un rifugio sovversivo, ma tocca vedere quanto. La realtà? Un elenco di fatti incomprensibili, da inglobare mediante la colla della teoria. La vita si scrive, ma solo fino a un certo punto. La Morte, invece, non smette mai di scrivere.