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28 Aprile 2017 | Parlophone | gorillaz.com |
Damon Albarn è un uomo intelligente. Un individuo particolarmente brillante, scaltro, acuto, ricettivo, simbiotico verso ciò che lo circonda, che vive manifestandosi al di fuori del proprio eco-spazio. Ché nel tempo ha saputo costruirsi una precisa immagine, indossarne i panni di personaggio-simbolo per una intera generazione, e alla fine abbattere tutto e ripartire con ingegno e inventiva usando altri travestimenti creativi. Un super eroe della Lego, bizzarro e simpatico. Un folletto mattonato e multi-colore che, agli inizi dei Novanta, partiva in compagnia dei Blur alla conquista del regno Brit Pop per poi abdicare alla volta di una fantasmagorica “grande fuga”: divenendo così una delle figure più importanti e autorevoli di tutto il panorama rock mondiale.
In tutto questo tempo (vent’anni), Damon Albarn non ha solo saputo far fruttare la propria notorietà segnando le logiche del mercato discografico, ma è riuscito anche a costruirne di nuove, percorrendo strade alternative (“The Great Escape” del 1995) al limite estremo di un tracollo commerciale – le rischiose incursioni sperimentali nell’omonimo “Blur” come nel successivo dissonante “13”.
Cambiando continuamente tanto nella forma – nell’ultimo lavoro da solista, il bellissimo ed intimista “Everyday Robots” del 2014 –, quanto nel linguaggio (The Good, The Bad & The Queen) e sapendo utilizzare la creatività senza mai cadere in banalità di sostanza, Damon è stato ed è uno dei pochi superstiti sbucato fuori dai Novanta che ancora oggi non delude ad ogni sua proposta.
Di tutti i progetti, collaborazioni e quant’altro, Gorillaz è senz’altro il più bizzarro. In esso Damon (assieme al grafico Jemie Hewlett) da libero sfogo alla fantasia, catapultandoci forzatamente nel suo mondo ‘distorto’, edificando una realtà fagocitante in technicolor e sfruttando il suo arsenale linguistico per segnare la mappa di ambigui ed affascinanti paesaggi.
Una illusoria, fasulla, inesistente grande immagine, in cui il nostro cantastorie inglese include la versione allegorica del suo storico passato: animata da fantasmi al neon, presieduto da sgargianti zombi nerd, o improbabili e ingombranti mostri domestici.
Il nonsense immaginifico del nuovo “Humanz” è strabordante. In musica, si potrebbe tradurre con: ‘leggerezza’ Hip-Hop, Elettronica “Bontempi” infantile e lirismo bluriano che danzano allegramente sotto il palco di un teatrino cartoonesco in salsa R&B.
Impossibile snocciolare l’essenziale dal superfluo, perché tutto il disco è principalmente basato su un assunto, ovvero: l’immagine (distorta, superficiale) prevale sulla sostanza musicale, costretta (oggi) a ‘vivere’ attraverso le voci ospiti: che però nel disco hanno libero sfogo.
Nel nuovo “Humanz” gli ospiti non si contano, tutti sapientemente pescati ed incastrati ad arte dentro la musica sintetica dei Gorillaz. Venti micro squisitezze Pop che si susseguono senza pausa.
Su tutte: la perfetta sincope offerta dai veterani De La Soul nella magnifica “Momentz”, il paradosso R&B romantico e clownesco di Danny Brown e Kelela che scimmiottano in “Submission”, il Funky-synth distorto e inquieto di una sensualissima Grace Jones in “Charger”, ed il gospel indulgente che emerge nel sermone “Hallelujah Money” – offerto dal reverendo Beniamin Clementine. Ed ovviamente la voce indiscussa ed ‘invisibile’ di Damon Albarn, che a volte si limita ad accompagnare in una supervisione di fondo, mentre in altre si impone solenne ma al tempo delicata: pensiamo a brani come “Andromeda”, dove ricorda il Prince più minimale, alla suadente “Sex Murder Party”, per poi concentrarsi sulle dinamiche dei Massive Attack in “She’s My Collar”.
Un disco che sorprende.