Da dove arriva la storia di Babadook? «Dallo scaffale», spiega semplicemente il piccolo Samuel alla madre, ignara del bizzarro cartonato dalla copertina rossa scelto per (non) addormentarsi. Non è una fiaba letta a scuola. Non è lo spauracchio solitario, indicibile, segretamente sussurrato a letto, la torcia accesa sotto il lenzuolo e i tremolii lungo la schiena. Non è Beetlejuice che spunta se chiamato tre volte. Non il regalo di qualche maligno, né un ritrovamento nello scantinato. Mister Babadook semplicemente sta lì, in bella vista, da ieri o da sempre, per essere aperto tutte le sere come nessuna. In mezzo alle classiche storie della buonanotte, fra porcellini zelanti e lupi sconfitti. Il punto non è il mistero. Non c’è da chiedersi quale e quanta strada abbia fatto, la storia di Babadook. Come sia arrivata lì. Chi ce l’abbia portata. In quali mani sia passata. Chi sia l’autore che compone le rime e chi il mattatore che incolla i pezzi strappati. Si tratta di crederci o meno. Di crederla reale. E come tale questionarla, alimentarla, rivestirla. Sospendendo anche la nostra, d’incredulità. Amelia – la sfibratissima madre vedova – ci crede. Dal primo momento. Forse prima e ancor più del figlio. Integralmente, visceralmente, offrendosi tutta. Se così non fosse, il film di Jennifer Kent sarebbe finito dopo cinque minuti. Perché – a non volerlo prender per vero – Babadook si fugherebbe nello stesso batuffolo d’inconsistenza effimera dei porcellini e delle principesse a palazzo. Che infatti non esistono, non diventando materia dell’incubo e oggetto del film proprio perché non ci crede nessuno. Amelia dà invece credito e corpo alla sagoma dell’uomo nero dietro la porta perché le serve disperatamente, ne ha un bisogno famelico. Perché è l’occasione giusta, la proverbiale, provvidenziale quanto inattesa goccia per rigettarvi quintalate di frustrazione repressa per anni. Per accarezzare impunita la catarsi inammissibile e il tabù supremamente negato della violenza domestica.
Ora, fin dove arriva la storia di The Babadook? Inizialmente familiare, a portata di mano, al suo posto come un innocuo libro sulla mensola, si dirama più lontano e in profondità, in un fitto ricettacolo di tante altre storie possibili. Stanate a più livelli da un’oscura mano con lunghe dita aguzze che si avvinghia a sogni e memorie cinematografiche plurime – da Méliès e le ombre espressioniste fino a Mario Bava e Kubrick -, mettendo radici e trovando appigli dovunque, facendo dell’opera un’evocazione di archetipi, un grande racconto dei racconti sui topoi dell’horror psicanalitico, e non solo.
Riflettendo sul sociale, ad esempio, Babadook è il perfetto epigono contemporaneo di quello che Stephen King, nel suo Danse Macabre, definisce: “il film horror inteso come incubo economico”. Al crollo psicologico di Amelia, fa il pari il dissesto finanziario della madre single in crisi. Per dirla con King, assistiamo al “più ovvio effetto della Casa Stregata, e anche l’unico che sembra empiricamente innegabile: a poco a poco l’edificio [leggi Babadook] sta portando la famiglia alla rovina finanziaria”. La possessione diventa spossessamento. Con Amelia, già in difficoltà con le bollette, che deve pagare per il naso rotto della nipote, per aver provocato un incidente, per una carta da parati consunta e sbrecciata che andrà sostituita, forse. Inguaiandosi pure con il lavoro, l’iscrizione scolastica di Sam e i sospettosi servizi sociali.
Babadook resta però anzitutto una claustrofobica seduta spiritica di puro terrore epidermico. La riuscita del film sta proprio nell’appendere gli archetipi teorici più illustri alla paura più infantile, banale e basilare – e per questo follemente irrazionale -, quella che ci fa scorgere le più temibili aberrazioni in un mucchio di stracci, cappelli e vestiti afflosciati a terra o accatastati sul guardaroba.
Nel delirio di Amelia, il plot sembra porsi come l’inquietante reviviscenza rovesciata, e al femminile, delle ossessioni di due classici come Vertigo e Shining. Hitchcock è presente da subito, nel motivo della caduta nel vuoto che funesta gli incubi della donna. Come non è un segreto che si parli di necrofilia. Di una donna repressa – si tocca a letto interrotta dal figlio, spia voyeuristicamente una coppia che pomicia in auto – che vuole andare a letto con un morto (in Vertigo è il contrario, nell’interpretazione dello stesso Hitchcock). Tentando di ricreare l’immagine di un fantasma per ricongiungervisi. Ma per farlo – e accedere alla dimensione della liberazione – deve eliminare il figlio, come un redivivo Jack Torrance in apertura di un’altra splendida festa di morte.
L’assassinio sacrificale, il tributo di sangue, è allusivamente consigliato/scopertamente imposto dal fantasma, in uno scambio funereo in campo/controcampo, come il guardiano Grady con Jack. Il bambino è il primo a fiutare,“vedere” il pericolo, quasi avesse la luccicanza, e quindi a cercare alleati “fuori”. Amelia brandisce il coltello di Wendy Torrance, perché non ci sta più a fare la vittima. Taglia i fili del telefono, interrompendo ogni comunicazione con l’esterno – si ricordi la radio distrutta da Jack – e isolando il terreno per il sabba del Babadook. La signora Roach, l’anziana e cordiale vicina – osservata da Amelia dalla finestra (sul cortile) in salotto, nell’immobilità geriatrica che raddoppia il blocco dell’insoddisfacente routine della protagonista nel lavoro all’ospizio – ha comunque intuito, “sentito” qualcosa. E proprio come il cuoco Halloran tenta, fallendo, di penetrare nel ménage familiare per offrire aiuto. Salvandosi solamente – al contrario di Halloran – perché non varca la soglia dell’haunted house. Quando il bimbo si chiude in camera, irrompe l’Amelia Torrance più bestiale. Butta giù la porta, umilia il figlio – little pig, lo stesso dileggio di Jack da dietro la porta del bagno (little pigs, little pigs, let me come in; senza contare che let me in è anche la formula d’ingresso per Babadook) –, fa il verso piagnucoloso alle sue balbettanti giustificazioni (come Jack con Wendy) e confessa di volergli fracassare la testa. Ripetendo alla lettera la minaccia di Jack di ridurre in pezzettini il cervello della moglie sulle scale dell’Overlook.
Quindi The Babadook è Shining? Sì ma anche no, almeno non solo. Perché le trame del contro-edipo derelitto incontrano il loro doppio speculare (che si mostrerà vincente): le difficoltà edipiche del piccolo Samuel di riferirsi a un corpo materno divenuto improvvisamente distruttivo, estraneo, perturbante. Su questo versante, la fiaba nera del Babadook diventa la scoperta dell’egoistica bestialità dell’adulto da parte del bambino, che mette in atto le sue contromosse di contenimento. Jennifer Kent sembra proporre una disturbante rilettura dell’approccio psicanalitico di Bruno Bettelheim, che ne “Il mondo incantato” descrive l’ideale scissione operata dal bambino fra la madre buona (la vera madre) e la madre cattiva, figura di “sosia impostore” su cui riversare le malvagità non attribuibili al genitore. Seguendo Bettelheim, niente è più allarmante, per il bambino, “dell’improvvisa trasformazione [della mamma] in una figura che minaccia nientemeno che il suo senso d’identità quando lo umilia perché gli è capitato di bagnarsi i calzoncini”. È proprio ciò che accade a Samuel nel climax più terrificante, a cui il bambino reagisce operando la detta divisione («Tu non sei mia madre»). E quando intima più volte, con amorevole sicurezza, alla madre di volerla proteggere, abbracciandola anche al culmine del demoniaco, lo dice innanzitutto per proteggere e conservare l’immagine pulita e armoniosa che ha di lei, l’unica che può davvero sopportare.
Così, tra madre e figlio, Babadook si muove a passo felpato tra continui cambi di focalizzazione. Intrecciando i piani, non sbilanciandosi mai veramente su a chi spetti il compito di esorcizzare l’incubo. «Svegliati mamma» l’avverte Sam a occhi chiusi. «Sei tu quello che sta dormendo, tesoro», si sente rispondere.
Dove finisce la storia di Babadook? Oltre la malattia sociale, il trauma infantile, l’horror che vomita sangue e il thriller psicologico, Babadook convoca un suggestivo e imprevedibile duello di magia. La magia bianca, innocente e salvifica di Samuel, Copperfield in erba che si allena a far comparire colombe e mazzi di fiori, scacciando le paure con catapulta di legno e pietre appallottolate. E la magia nera, nerissima, di Amelia. Sguardo vitreo e infossato dal pallore lunare che, ipnotizzato dai trucchi di Méliès alla Tv, proietta immagini rimosse e macabre figurine animate, che prendono vita come un pop-up grandguignolesco in una lanterna magica del pre-cinema. La stanza da letto, o meglio, la spazio davanti al letto, ciò che si nasconde al buio quando si è distesi, diventa il controcampo in cui si specchiano le ossessioni di Amelia.
Con un preciso lavoro stilistico che abolisce ellissi e dissolvenze, in Babadook tutto viene tracciato e si compie sul volto insonne di Amelia. Cambiando toni e sfumature senza stacchi, saldando il passaggio notte/giorno, buio/luce, veglia/sogno. La sua immagine fissa in primo piano accelera in brevissimi segmenti di avanti-veloce che danno il senso del tempo trascorso e lo scorrere del girato di una telecamera. Con effetti volutamente opposti all’estetica di Paranormal Activity. Di fronte all’eventualità dell’intrusione notturna, La Kent non mostra la registrazione obiettiva degli angoli della casa, quello che di soprannaturale succede intorno, quando i personaggi dormono. Ma effettua la diretta gli spasmi e della mimica di Amelia, studia gli spigoli del corpo e del volto, perché è lì che si gioca tutto.
Il cinema si adegua. Se Amelia si assopisce, ecco il fuori fuoco, nebbia e sovrimpressioni. L’inquadratura si scuote come la testa cascante. Anche le variazioni luministiche della fotografia si modellano sulla schizofrenia cangiante del personaggio. Come nella splendida sequenza di Amelia nella vasca da bagno, con la vestaglia prima rosso scura, poi inzuppata in un nero livido e umido (quando trascina il figlio con sè), quindi nuovamente rossa. Così come non è un casuale che, all’estinguersi del maleficio, quando Amelia sceglie di non credere più al suo teatro di ombre, il controcampo scenico che la osserva, la soggettiva (senza soggetto) di Babadook, se per un attimo pensa a un’aggressione, subito si stacca dal volto della donna per fuggire sulle scale e rinchiudersi in cantina. E rimanerci. In attesa che anche noi spettatori si diventi abbastanza grandi per vederlo, o abbastanza piccoli per poterci credere ciecamente.