Mi attende dopo poco il buon John Wesley che fa da “gruppo di supporto” al concerto dei Porcupine, con la sua chitarra acustica, la sua calda voce e le sue cariche ed emozionanti canzoni rock! Sapevo del fatto che John Wesley si era aggregato ai Porcupine come seconda chitarra per questo tour, ma non sapevo che avrebbe fatto questo piccolo show di mezz'ora prima dell'entrata del gruppo londinese al completo dove, invece, ha imbracciato la sua chitarra elettrica. Uno show, quello di Wesley, da “club” davvero eseguito benissimo, con grande maestria e con canzoni veramente belle (non conosco i lavori solisti di Wesley, e quindi presumo siano canzoni della sua produzione quelle suonate, ma non lo so di certo!).
Appena finito lo show preliminare di John mi infilo nella folla in terza fila e vedo sfilare i soliti Roadie di rito che oltre a provare gli strumenti, stendono davanti al microfono un tappeto persiano evidentemente ad uso di Steve Wilson, l'attesa comincia a farsi snervante, e finalmente i Porcupine entrano in scena. Per me, che non avevo mai visto i Porcupine dal vivo, rimango affascinato particolarmente dalla figura di Wilson. Sia fisicamente, non lo immaginavo così magro e giovanile, sia come personalità, entra in scena a piedi nudi sul suo tappeto, attira l'attenzione su di se in tutti i modi, scende dal palco per unirsi al pubblico, doma la folla a suo piacimento. Ma apparte lui la figura che attira la mia attenzione è anche Gavin Harrison, sopratutto per l'ingombrante eredità che si doveva portare dietro, ero curioso di vedere come avrebbe reagito e come avrebbe suonato. Bè devo dire che la tecnica è sicuramente un suo punto di forza notevole, davvero preciso e impeccabile, certo paragonarlo al suo “pluridecorato” predecessore, Chris Maitland è davvero coraggioso. Due batteristi troppo diversi per poter giungere ad un giudizio su chi sia meglio o peggio. Certo con l'entrata di Gavin, i Porcupine hanno cambiato e cambieranno inevitabilmente sound, questo bisogna metterlo in conto ed è anche normale.
Ma ritorniamo al concerto. I Porcupine scaldano il pubblico con un trittico di canzoni estrapolate tutte dall'ultimo “In Absentia”, cioè “Blackest Eyes”, “Sound of Muzak” e “Gravity Eyelids” e lo scaldano davvero tanto, con ritmi e suoni al limiti dell'heavy metal o ancora meglio del Progressive Metal. Poi i Porcupine riprendono “vecchi” (ma mai attinendo ai primissimi album) brani come “Even Less”, “Slave Called Shriver” diffondendo nel palazzetto un'aria più “psichedelica” che viene alimentata anche da canzoni evocative come “Last Chance to Evacuate the Planet before it is recycled”, “Heartattack in a Lay by” e “Waiting Phase One”.
Mentre i picchi energici vengono ri-raggiunti con la stupenda “Russia on Ice” (anche se nn sono pienamente soddisfatto dell'esecuzione, ma amando così tanto questa canzone nn sarò mai soddisfatto ;-) ) e la strumentale “Wedding Nails” sempre tratta dall'ultimo lavoro che trasmette veramente una grande energia, e che fa muovere nuvole di capelli lunghi al ritmo incalzante! Infine i Porcupine riprendono uno dei brani più orecchiabili dell'ultimo album cioè “Strip the Soul” che col suo incedere strizza un pò l'occhio alla nuova ondata alternative metal (chi ha detto Tool?) anche se sempre con lo stile inconfondibile dei Porcupine!
A questo punto la band di Wilson si ritira ma è solo una delle due finte “in programma”. Poichè incitati dal pubblico che richiede il loro ritorno sul palco, la band londinese torna e ci delizia con “Trains” (anche se Wilson fa un pò di difficoltà ad arrivare sui punti più acuti della canzone!) e “Dark Matter” per ritirarsi ancora e concludere con la strumentale “Tinto Brass” tratta da Singify, eseguita in modo magistrale e che ha il più alto valore emotivo della serata, e sopratutto rievocando il sound più “old” dei Porcupine Tree.
Il concerto finisce definitivamente, e lo staff ci invita a prendere la via di casa. Me ne vado dal Palacisalfa comunque soddisfatto di aver assistito a quasi due ore di musica ottimamente suonata e che mi ha trasmesso molte emozioni… quindi cosa aspettarmi di più da un concerto dei Porcupine, sopratutto essendo il mio primo del gruppo londinese?
Autore: Supernaut
A due anni di distanza dalla loro ultima capatina in terra italica, e a sei dal concerto di Roma da cui fu tratto il live “Coma Divine”, i Porcupine Tree si presentano al nuovo appuntamento romano in forma assolutamente smagliante.
Qualcosa è cambiato, a partire dalla risposta del pubblico. Se il 21 aprile 2001 a Torino suonarono di fronte ad uno sparuto gruppo di persone (ed io ero fra quelli), questa volta il Palacisalfa è poco meno che stipato.
Cambiati sono anche i protagonisti. Un godibilissimo John Wesley in più alla seconda chitarra e ai controcanti, nella doppia veste di “opener” e di session man, che ha dimostrato, nei 20 minuti iniziali in cui ha cantato e suonato da solo, di possedere una voce ed un’estensione eccellenti (migliori dello stesso Wilson, dal vivo non sempre a suo agio dietro il microfono). Ed un Chris Maitland in meno alla batteria, sostituito però più che dignitosamente da Gavin Harrison. Quest’ultimo si è fatto apprezzare sia per la tecnica che per una certa raffinatezza di tocco; anche se, come giustamente ha notato qualcuno, esse sono emerse un po’ a singhiozzi, inscatolate e spesso ovattate dalle scelte stilistiche della confezione sonora del gruppo.
Il mattatore della serata, inutile dirlo, è comunque mister Steve Wilson. Lui di sicuro è sempre lo stesso: piedi nudi sul palcoscenico, sguardo nascosto da occhialini scuri, capelli lunghi, chitarra a tracolla… anzi chitarre, come ogni buona rock-star che si rispetti.
Wilson canta, come un poeta che recita al cielo i suoi versi e non si cura di essere ascoltato oppure no; suona, concentrato sui suoi assoli o come un leone in gabbia durante gli accompagnamenti; saltella di qua e di là e in questo è un po’ meccanico, specie quando si avvicina ai suoi compari o fa’ un cenno verso di loro; ma è anche del pubblico. Parla, scherza con qualcuno che gli urla «Fuck you!» dicendogli di tacere, richiede il silenzio per quei pezzi che iniziano soffusamente (“Russia on Ice” su tutte, divina come sempre), scende a dare il “cinque” agli spettatori in piedi in prima linea, e per un paio di secondi in più non tocca anche a me. Sul più bello deve ovviamente riprendere a suonare.
Qualcuno gli allunga lo stesso il palmo aperto. Lui ride imbarazzato, risponde che non può perché ha le mani occupate.
Sapete, questi fastidiosi assoli… Uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare.
E gli altri? Richard Barbieri, in fondo al palco al pari della batteria, suona le tastiere e le sue programmazioni senza curarsi molto del contesto. Rimane un po’ nell’ombra, come al solito.
Colin Edwin invece ha l’onore della postazione più avanzata, anche se defilato sulla destra affinché sia chiaro che si tratta di un semplice comprimario. E’ senza dubbio il più simpatico, sempre allegro su quel volto pacioccoso e rubicondo. Guarda spesso verso di me o comunque nella zona in cui mi trovo e sorride. Pare quasi divertito all’idea che tutta quella gente sia lì per loro, acclamante: Per lui è solo un gioco, un divertissement, un passatempo. Non si sente un idolo. Difatti si guarda bene dallo strafare. Chissà cosa gli direbbe Steve Wilson nei camerini, poi…
Cronologicamente, la scaletta non va più indietro del 1996, anno di “Signify”. Il che, se da un lato è un peccato perché non ci dà la possibilità di ascoltare come verrebbero oggi i vecchi pezzi (in attesa delle riedizioni con i campionamenti sostituiti da strumentazione vera), dall’altro consente di apprezzare quasi tutti i brani migliori della produzione più recente. L’ultimo album, “In Absentia”, è ovviamente maggiormente rappresentato.
“Blackest Eyes” apre il concerto, seguita a ruota da “The Sound of Muzak” e dalla dolce e potente “Gravity Eyelids”. Si procede un po’ a blocchi, passando poi ad un paio di estratti da “Stupid Dream”: “Even Less” è ormai un classico, e anche la forma canzone di “Slave Called Shiver” si difende bene, trascinante al punto giusto tanto che sembra scritta apposta per le esecuzioni live. Prima di passare a “Lightbulb Sun”, c’è ancora un pezzo dall’ultimo album. E’ lo strumentale “Wedding Nails”, davvero ben riuscito.
A questo punto il pubblico è già caldo e scalmanato.
Mi trovo in mezzo a tanta gente a scuotere i capelli al ritmo della musica, nemmeno fossi un metallaro (sono questi i momenti in cui vale la pena averli lunghi). Il feedback così scaturito produce una maggiore intensità espressiva anche da parte dei cinque sul palcoscenico. E qui si vede la differenza di resa fra un concerto per pochi intimi come quello di Torino ed uno dove i tanti spettatori e la loro eccitazione ti danno e ti chiedono qualcosa in più.
Ascoltiamo allora un trittico di canzoni davvero da brivido: “The Last Chance to Evacuate Planet Earth Before it is Recycled”, “Hatesong” e “Waiting phase 1”. “Hatesong” è tra gli episodi meglio riusciti della serata, ma che emozione sentire “Waiting” rifatta dopo tanto tempo…
E non è ancora finita!
Prima che il concerto si concluda, ci sono ancora “Russia on Ice”, “Heartattack in a Lay by” e (naturalmente) “Strip the Soul”. Addirittura due i bis. “Dark Matter” non è meno inattesa di “Waiting” ed altrettanto emozionante nella sua crepuscolarità. Uno dei più bei pezzi di sempre dei porcospini, raramente eseguita dal vivo e che ha quindi reso ancor più eccezionale l’evento.
Si chiude con un altro classico, “Tinto Brass”, uno strumentale tanto coinvolgente quanto triviale è il regista che gli dà il titolo.
All’uscita dal Palacisalfa, sull’autobus, ho conosciuto un signore che avrà avuto una quarantina d’anni e che parlava inglese. Era venuto dalla vecchia Gran Bretagna per il concerto e mi ha voluto comunicare il suo entusiasmo. Ha detto che lo spettacolo è stato “brillante” e che era contento perché quella sera aveva sentito rock, pop, metal e progressive in un concerto soltanto.
Già, proprio vero. Troppe basi in sottofondo, forse; in alcuni momenti sentivo il basso ma non vedevo Edwin suonare. Troppo simili alcuni pezzi a come sono su disco, forse; avrei apprezzato uno sforzo per renderli più indipendenti da tutti gli orpelli che si ascoltano su CD; troppo suddivisi i ruoli, forse, con Wilson mangia-attenzione e gli altri soltanto attenti a fare bene la loro parte.
Ripensando però a quel che ho sentito e che mi è passato attraverso, a quell’ultima “Tinto Brass” ricca di schitarrate elettrizzanti, agli stacchi potenti di Harrison in “Russia on Ice” che ti facevano di colpo pensare «Però…» sulle sue doti di batterista, ai miei capelli che mulinavano in aria e alla mia ragazza che quando Steve Wilson ringraziava il pubblico, rispondeva: «Grazie a te», devo ammettere che per lamentarmi dovrei proprio essere incontentabile.
Autore: Giuseppe Menale
Per la prima volta mi accingevo ad assistere ad uno show dei Porcupine Tree in un ambiente che davo per certo non avrebbe consentito la miglior resa ambientale per il gruppo di Wilson.
Tale le premesse e tali i fatti purtroppo, un'acustica penosa ha condizionato un'ottima performance tecnico/artistica.
Non mi addentro nella disamina del singolo brano, cercando di rendere l'idea del complesso. L'inizio difficile e nello stesso tempo travolgente, ci ha regalato tre perle di In Absentia: Blackest Eyes, Sound of Muzak e Gravity Eyelids; niente da dire se non un inopportuno riarrangiamento delle voci in Sound of Muzak, che, personalmente, non e' piaciuto. Il concerto si e' poi sviluppato con brani della vecchia produzione, inframezzati da brani di In Absentia, eseguiti con un sound attuale e piuttosto “duro”.
Particolarmente toccanti Russian on Ice e Haertattack In A Lay By.
Primo bis con con un'ottima esecuzione della spelendida Trains a cui e' seguita una celebrale Dark Matter.
Ritorno sul palco per concludere definitivamente la performance con una stupenda Tinto Brass.
Un concerto di ottima fattura, una band di ottimi musicisti, ma di buoni comprimari, che, manco a dirlo, ruota attorno alla figura di Wilson, che guida, dirige e attrae magneticamente il gruppo e il pubblico; psicheledia del 2000 che prosegue, con continuita', il messaggio musicale dei grandi innovatori degli anni 70.
Difetti: probabilmente un tentativo troppo spinto di riarrangiare il brani, che, in alcuni casi, non ha centrato l'obiettivo che forse Wilson si poneva e la durezza dei suoni, in alcuni momenti puttosto freddi ed esasperatamente metallici.
Per concludere show di altissimo livello musicale e tecnico, dove forse e' mancato il “brivido” continuo; comunque una spledida serata, in uno splendido personale momento, che e' stato accompagnato da miglior veicolo per la trasmissione di sensazioni e sentimenti.
foto realizzate da Cesqo e Supernaut