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Dopo l’ottimo primo album dello scorso anno, tornano gli svedesi Logh. Avevo apprezzato molto il loro esordio, soprattutto per certe suggestioni create dalla slide guitar, facendomi ben sperare per il futuro. Forse costretti dalle solite leggi discografiche i Logh ritoccano un po’ il loro stile, spingendosi verso sonorità più abbordabili e eliminando quasi completamente certi rimandi al post rock. Oggi i Logh suonano un fresco e solare alternative rock, riprendono il discorso lasciato dai Radiohead in “Ok Computer” spogliandolo di quell’ opprimente pessimismo che lo contraddistigueva – ma che la ha reso memorabile ed irripetibile – e consci dell’esistenza e del seguito di gruppi come i Coldplay, provano a loro volta ad imporsi sul mercato con questo “The raging sun”, che ha in “The contractor and the assassin” il singolo apripista, non ruffiano abbastanza per scalare le classifiche, ma molto ben strutturato, ispirato e forte di una parte centrale molto godibile, con superlativi intrecci di clean guitars in chiara evidenza. La splendida e tristissima “End cycle” è un riflessivo e pacato momento d’intimità, dove le due voci schierate una sul canale destro e l’altra sul sinistro sembrano uscite da un disco non troppo lontano dei Radiohead, mentre il solo pianoforte le sorregge e al tempo stesso le culla, non forzandone il fluire gentile. Sono brani che stimolano il nostro immaginario più emotivo, le nostre più placide estraniazioni dal quotidiano e “Thin lines”, con il lentissimo e malinconico arpeggio chitarristico in primo piano, la solita voce quasi sussurrata e un intermezzo batteristico profondamente reverberato, non si discosta da tali esortazioni. “An alliance of hearts” potrebbe diventare il secondo singolo mantenendosi su sonorità vicine a quelle di “Politik” dei Coldplay, mentre la title track riporta i toni su sentieri più soleggiati. Un discorso a parte merita “The bones of generation” che si pone come improbabile incontro tra post punk e nuova psichedelia, tra ritmi serrati, chitarre ora martellanti, ora improvvisamente rallentate e bagnate da settantiani tremolo e azzeccatissimi ritardi: un episodio che mette in luce l’ottima abilità creativa di questi ragazzi svedesi. Altro highlight del disco nella lunga “City, I’m sorry”, dove sembrano ritornare le tentazioni post rock dei primo disco tra interessantissimi pulsazioni bassistiche nei momenti più ritmati e coloratissime visioni nei suggestivi feedback di chitarra e in incredibili pianoforti pesantemente filtrati e reverberati, a volte perfino ritardati. Sebbene molte delle soluzioni che avevo amato nel primo disco siano quasi del tutto scomparse, mantenendo comunque intatto il loro trademark i Logh hanno dato su questo disco prova di maturità e innegabile capacità nella creazione di episodi che potrebbero anche imporli come nuova realtà accanto ai soliti nomi della scena rock alternativa odierna, questo senza scadere in imbarazzanti scopiazzature e senza cadute di stile. Superlativo l’uso che fanno degli effetti di colore come il reverbero e il delay, buonissimo anche il sound che si mantiene fresco e riconoscibile per tutta la durata del disco. Scopriteli.