Israelite, Koby – Dance of the idiots

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Ho sempre considerato la musica orientale un qualcosa di estremamente affascinante che però le mie orecchie han sempre faticato ad accettare, forse perchè ormai schiave delle figure armoniche occidentali che differiscono da essa per canoni e tradizioni. Pertanto mi sono avvicinato a questo (primo?) lavoro di Koby Israelite, giovane musicista israeliano insediatosi a Londra, armato di molta calma e pazienza. Pochi secondi sono bastati per farmi capire la natura di questo progetto, che parte effettivamente da una world music di chiaro stampo etnico-mediorientale caratterizzato da suggestivi e mistici vocalizzi, meravigliosi giochi di fiati che richiamano alla mente gli sterminati deserti e i luoghi di culto, per finire in territori rock, fusion e addirittura in un paio di episodi, a sfiorare sonorità metal. Pazzia? No, tutt’altro, genialità semmai. L’attitudine di Koby, tra l’altro fantastico polistrumentista a suo agio sia dietro la batteria e percussioni varie, sia con pianoforti, tastiere, chitarre, fiati e qualsiasi altra diavoleria etnico-strumentale, mi ha ricordato molto quella del grande Frank Zappa, che sappiamo quanto sapesse amare spazziare tra generi sulla carta distanti tra loro. Koby, prodotto nientemeno che da John Zorn e affiancato da una serie interminabile di collaboratori alle prese con gli strumenti più bizzarri, ci conduce in un visionario viaggio spirituale che si muove su ritmi di estrazione spesso occidentale, a loro volta contaminati da innesti percussivi tipici dell’etnia mediorientale. L’esordio di “Saints and dates” ci accompagna nei vicoli tortuosi della world music israeliana che si fa più forte ed evidente nei richiami tradizional-popolari della successiva “Toledo five four”, interrotti grossomodo a metà del brano da una presa di posizione batteristica che inaugura una digressione in territori jazz rock per poi tornare pian piano sul tema iniziale. La terza traccia “If that makes any sense” è una delle esperienze più entusiasmanti che un ascoltatore possa fare: dai suggestivi vocalizzi iniziali di tipico stampo tradizional orientale, si passa ad una base folle dai chiari richiami thrash metal (sì avete capito bene!), con tanto di batteria in doppia cassa e chitarre violentemente distorte, intervallate da seducenti intermezzi d’archi e le solite voci a colorare un paesaggio sonoro che odora sempre più di tecnologia mistica. Quando le visioni di ” In the meantime” lasciano il loro spiritualismo tipicamente orientale per approdare in un orgasmatico space rock, jazzato nelle modali solistiche di clarinetto, sarete inizialmente quasi scossi da cotanta pretenziosa sfacciataggine ma poi non saprete più lasciare quell’universo alternativo così affascinante e invitante. E che dire della successiva “Truha”, come non definirla pura dimostrazione di genio nei suoi sfondi da preghiera che entrano in collisione con progressivi sintetizzatori e le sue saturazioni chitarristiche su una batteria di una potenza e di una efficacia inaudita che accolgono assurdi quanto spensierati gorgheggi da festa popolare, a loro volta smaterializzati da un improvviso fusion rock godibilissimo. Sono inseguimenti musicali, generi e concezioni armoniche e ritmiche che si rincorrono per incontrarsi, sedursi, e lasciarsi bruscamente, sorrette da un lavoro batteristico costantemente straordinario per esecuzione ed estro e da arrangiamenti etnici di gran classe che sfidano la loro coerenza tradizionale per entrare talvolta in contatto con disegni di scuola occidentale. In una parola: geniale.