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David Bowie si è mostrato davvero prolifico ultimamente: era parecchio che non lo vedevamo sfornare un così ampio numero di album nel giro di pochi anni e “Reality” è la sua ultima fatica. L’album è stato presentato in grande stile con un evento all’avanguardia che ci mostra come il Duca sia sempre attento a tutto ciò che è innovazione e possa suscitare interesse: suo infatti è il primo esperimento di concerto in studio in diretta, proiettato in alcuni dei più importanti cinema europei (per l’Italia è stato il noto “Arcadia” di Melzo) e con la possibilità per i fortunati spettatori di poter porre domande in diretta al grande artista inglese.
Bowie abile quindi a creare un evento attorno all’uscita di quest’album, che segue il ben accolto “Heathen” di un anno e vede nuovamente il buon Tony Visconti nel ruolo di produttore, rinnovando forse definitivamente una collaborazione la cui interruzione è stata additata da molti come la causa del declino del nostro a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Ma detto questo, come sarà mai questo “Reality” vi starete chiedendo?
Bè, “Reality” non è un capolavoro e non ci sentiamo di paragonarlo né ai grandi dischi del passato né a nefandezze in stile “Never let me down”; “Reality” è un buon disco, né più né meno, con alcuni pezzi di notevole livello e tanta classe. Inutile quindi paragonarlo al passato, si tratta di un capitolo totalmente nuovo nella discografia e nella vita del nostro. Ma veniamo al dunque.
Tocca al single “New killer star” aprire e questa è già una piacevole sorpresa: unire il rock moderno ai contenuti dell’allora futuristico e ancor oggi attuale “Lodger” è una mossa azzeccatissima, in questo pezzo troviamo un Bowie ancora capace di colpire nel segno, risultando entusiasmante come ai bei tempi. Un’introduzione orientaleggiante ci introduce in “Pablo Picasso”, questo più accostabile a quanto sentito su “Scary Monsters” e nell’ultimo “Get ready” dei redivivi New Order, un rock immediato e davvero molto gradevole.
Apprezzabile anche “Never get old”, traccia molto easy che sembra una dichiarazione d’intenti: “I’m screaming that I’m gonna be living on till the end of time… And there’s never gonna be enough money / And there’s never gonna be enough drugs / And I’m never ever gonna get old”. Nostalgia dei bei tempi forse?
Un pianoforte dal forte sapore cinematografico ci accompagna nella prima ballata del disco, la valida “The loneliest guy”, in cui David ci dà un’interpretazione drammatica e sofferta, regalandoci grandissime emozioni. In ballate di questo tipo si esalta, non c’è niente da fare.
Non risulta del tutto convincente “Looking for water”, canzone che personalmente ho trovato eccessivamente monotona con il ritornello “Looking for water / (Looking looking) / I’m looking for water” abbastanza insulso, che ripetuto per troppe volte finisce per stancare. Molto più apprezzabile “She’ll drive the big car”, pezzo in cui riemerge il vecchio amore di Bowie per il soul, forse non esaltante ma indubbiamente piacevole, così come “Days”, un pezzo basato principalmente su voce e chitarra acustica, semplice e godibilissima.
Si lascia benissimo ascoltare anche “Fall dog bombs the moon”, un’altra canzone semplice e senza troppe pretese, ma la voce di David in fondo basta e avanza, anche se non siamo più ai fasti di un tempo quello è ancora in grado di darci qualche soddisfazione.
Abbastanza monotona anche la lenta “Try some get some”, il secondo pezzo di quest’album che proprio non riesce a convincere.
Stupisce invece la title track reality, il cui piglio aggressivo ci riporta quasi ai primi anni settanta, a Ziggy… in questa penultima traccia avrei visto bene un duetto con l’amico di scorribande Iggy Pop, anche lui in uscita in questi giorni col suo nuovo album; un pezzo autobiografico in cui il Duca guarda indietro al suo passato burrascoso e in cui, anche se la voce non è più quella di quei tempi, riesce ad essere graffiante come da tempo non sentivamo.
L’ultima “Bring me the disco king” è una chicca notevole, un pezzo dalla forte matrice jazz grazie al piano di Matt Garson. Nulla di meglio che queste morbide, notturne atmosfere jazz per creare un’atmosfera favorevole ai ricordi e chiudere in bellezza l’album.
Come già detto, “Reality” non sarà un capolavoro come quelli di cui abbiamo potuto godere in passato, ma è un album validissimo, realizzato con tanta onestà e classe da un artista d’altri tempi che ancora molto ha da dire ed insegnare.
Bravo Duca.