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Quello che mi accingo a recensirvi è uno di quei classici album che risultano essere veri e propri pomi della discordia che spaccano letteralmente l’opinione di critica e pubblico. Si tratta di “Let’s dance” di David Bowie, che dopo un periodo artistico assai fertile si ripropone al pubblico tre anni dopo il precedente “Scary Monsters (and super creeps)” con un album assolutamente pop in cui recupera anche il suo vecchio amato soul. L’album è la prima release del Duca per la EMI, che lo strappò alla RCA con un contratto di 17 milioni di dollari dell’epoca, una cifra assolutamente sbalorditiva
Via Tony Visconti, via Carlos Alomar e tutto il vecchio entourage – per precise scelte artistiche e non dissapori – Bowie raduna ancora una volta uno staff di tutto rispetto per realizzare il suo come-back. In fase di produzione e alle chitarre troviamo Nile Rodgers, ex bassista degli Chic, storico combo della disco music, mentre il ruolo di chitarra solista spetta a un giovane chitarrista emergente che presto farà molto parlare di sé: il texano Stevie Ray Vaughan.
Il cambiamento rispetto agli ultimi album è a dir poco sorprendente, e già l’introduttiva “Modern Love” è significativa: il pezzo è orecchiabilissimo ma perfettamente realizzato, dotato di un ottimo ritmo grazie al piano, ai cori e al sassofono, che ci regalano una canzone allegra, sbarazzina a tratti.
Quella che segue è una sorta di finta cover possiamo dire: l’orientaleggiante “China Girl” comparve nel 1977 su “The Idiot”, debut solista di Iggy Pop, con cui Bowie la scrisse a quattro mani; possiamo praticamente dire che in questa canzone coverizza sé stesso! L’interpretazione del Duca rispetto a quella dell’amico punta maggiormente su classe e groove (eccezionale il basso di Carmine Rojas), ma la canzone – una delle più note del suo periodo anni ’80 – mantiene ugualmente tutta la sua bellezza e impatto emotivo grazie anche al tocco dell’ottimo SRV, capace di esaltarsi e far esaltare in alcuni pezzi della canzone ignobilmente tagliati nella versione single.
Lo stesso discorso si può fare con “Let’s dance”, celeberrimo tentativo – grazie anche al pluritrasmesso video – di far rivivere la disco music nel bel mezzo degli eighties. Anche qui troviamo un Vaughan caricatissimo che ci delizia con i suoi numeri blues rock esplodendo nei minuti finali del pezzo (anche stavolta tagliati nel single), in cui duetta in assolo col sassofono di Bowie. “Without you” è una romantica, delicatissima canzone d’amore tutta intonata in falsetto, cui si contrappone subito dopo la fredda “Ricochet”, il pezzo più accostabile per realizzazione e sonorità al periodo immediatamente precedente – è comunque un ibrido fra il vecchio sound e quello nuovo – ma che in questo contesto sembra decisamente un episodio stonato, oltre a non avere certo la caratura dei vecchi pezzi. “Criminal world” è una cover a tutti gli effetti dei Metro, gruppo glam abbastanza noto in Inghilterra verso la fine degli anni ’70, un pezzo rielaborato in maniera patinata e soft in puro stile eighties.
“Cat people (putting out fire)” fu composta a quattro mani con uno dei guru della disco music dell’epoca, l’italiano Giorgio Moroder, un pezzo puramente catchy cui il lavoro di SRV conferisce qualche preziosismo qua e là ma che in tutta franchezza lascia il tempo che trova. “Shake it” invece spicca per banalità e povertà di ispirazione, un branetto pop insipido in puro stile Chic che purtroppo altro non fa se non anticiparci il peggior periodo di Bowie, che negli anni successivi sfornerà quelli che sono forse i peggiori album della sua carriera, “Tonight” (1984) e “Never let me down”.
Questo “Let’s dance” non è un cattivo album: esso contiene almeno cinque pezzi di assoluto livello e David non sembra ancora aver perso totalmente l’ispirazione; il problema che inizia a delinearsi in quest’opera è quello di una progressiva perdita di personalità e di voglia di stupire del nostro artista, edulcorato e irriconoscibile se confrontato a tre anni prima, quando ancora col suo look e –diciamolo – con tutte le sue influenze culturali riusciva a colpire il pubblico non solo per l’immagine, ma per contenuti e proposte.
Ciò nonostante quello che vi abbiamo recensito può essere definito a tutti gli effetti un disco assai valido, capace di ottenere ampi riscontri rimanere nelle UK charts per ben 56 settimane soddisfacendo appieno le aspettative dei boss della EMI e regalando ai fan del Duca dei nuovi indimenticabili classici.