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Dysrhytmia.
Ciò che mi colpì di loro qualche mese fa fu il dissonante, cacofonico nome e il fatto che la Relapse li presentasse come una band ben diversa dal solito. Ora, dopo diversi ascolti ho capito il perché, forse. Questo gruppo proveniente da Philadelphia, attivo fin dal 1999 ma giunto alla notorietà solo oggi, è composto dal chitarrista Kevin Hufnagel, dal bassista Clayton Ingerson – questi i due fondatori, amici fin dai tempi del liceo – e dal batterista Jeff Eber, tre ragazzi appassionati di metal tecnico e di jazz. “Più heavy”, “progressivi” e soprattutto “diversi”, ecco come i Dyshrhythmia vogliono essere.
In questa loro terza release ufficiale – la prima per la sempre più pimpante Relapse Records americana – troviamo nove pezzi di puro delirio, ricchi di soluzioni estreme e stucchevoli, come la sempre più nota label americana cui ci ha abituato.
“Bastard” è già tutto un programma. L’attacco mi ha fatto pensare subito ai purtroppo sciolti Breach, ma non è solo questo. “Bastard”, quasi a simboleggiare una commistione improbabile dei più disparati generi musicali: dal post core al metal, dal prog al jazz. Il basso di Clayton si fa subito apprezzare e gioca un ruolo fondamentale nella successiva “My relationship”, la song più breve di quest’album ma indubbiamente la più ritmata (che voglia suggerire l’idea di una “relationship” movimentata?), che ci dà modo di scoprire un degno allievo di un mostro sacro quale Sean Malone, capace di sfornare un basso sincopato dal ritmo semplicemente ossessivo e ipnotico.
Chiaro che la chitarra di Kevin e il precisissimo drumming di Jeff non gli sono affatto da meno. Già, perché mi stavo dimenticando di un dettaglio non da poco: non c’è una voce, sono tutti pezzi strumentali, musica nell’accezione più pura del termine. Dissonanza ed armonia in un continuo intreccio e scontro, un album di assai difficile ascolto, ma che ne offre per tutti i gusti, dalla ‘calma’ “And just go”, dall’atmosfera cupa e allo stesso tempo sofisticata, decadente (una potenziale colonna sonora di un film di David Lynch).
“Annihilation II” è forse il pezzo più angoscioso di “Pretest” col suo inizio stridente che cede via via il passo al sinistro giro di basso di Clayton, che sfuma via via in “Annihilation I” – no, non è un errore, è davvero posta dopo – dal taglio decisamente più aggressivo, devastante a tratti. L’apocalittica e cangiante “Catalog of personal faults” farà la gioia di chi ha saputo apprezzare le spiazzanti sonorità dei ‘colleghi’ Mastodon – ennesima rivelazione made in USA – mentre la conclusione spetta a “Touch Benediction”, la composizione più lunga con i suoi oltre undici minuti di durata, che dipinge un quadro desolato e inquietante, quasi realizzando in concreto una sorta di ambient strumentale senza synths.
Non c’è che dire: la Relapse ha fatto nuovamente centro. Ci troviamo di fronte a un trio di artisti davvero in gamba, capaci di regalarci grandissime, inquietanti emozioni coi loro strumenti coordinandosi alla perfezione, in perfetta (dis)armonia e senza cercare di prevalere l’uno sull’altro; un’ottima personalità in definitiva, che siamo sicuri li porterà a regalarci grandi cose in futuro. A produrre l’album ci ha pensato Steve Albini, già al lavoro con gli immensi Neurosis, e il tocco si sente decisamente soprattutto nelle atmosfere: davvero un bel salto per un combo che registrò il primo album artigianalmente in quattro giorni.
Altro non ci resta se non consigliare l’album a chi volesse cimentarsi in sonorità estreme e intriganti, che facciano spremere un po’ le meningi ma esaltino allo stesso tempo.