Oneida – Secret Wars

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Dall’esplosione di psichedelia, velocità e genialità senza eguali del precedente lavoro, gli Oneida approdano ad un disco che sembra essere più ragionato, meno furioso ma più valido sul punto di vista delle idee e sulla produzione sonora. Ci dimostrano che sanno mettersi continuamente in gioco facendo confluire nuove soluzioni e riuscendo così a distaccarsi ancora di più dalla scena newyorkese nella quale hanno cominciato a muovere i primi passi, divenendo infine unici e riconoscibili fin dal primo ascolto.
I brani si muovono sulla linea delle influenze, totalmente rielaborate nello stile tipico degli Oneida: da quelle propriamente post punk con massiccio uso di synth, a teutonici richiami di Can e oscure marce annesse, a costruzioni musicali minimaliste, allo stoner, alla psichedelia più classica, ondeggiante e ondulatoria, tante volte alle influenze del rock classico degli anni 60-70, al grage punk acido ed anche ad alcuni richiami allo straniamento proprio di certi momenti del Barrett solista. Tutto sostenuto dallo stile circolare e ossessivo, psichedelico e furioso, quasi dal sapore di jam che li ha resi famosi nell’ambiente alternativo.
Se si scende nei singoli brani, in particolare non si può fare a meno di soffermarsi su “Wild Horses” che il pezzo che più lascia spiazzati dell’intero album. Il gruppo aveva abituato da sempre a cavalcate acide, psichedeliche, rumorose, lunghe suite stranianti, veloci: mai nessuno avrebbe potuto immaginare che nel nuovo album ci sarebbe stato posto per una ballata. Certo sempre nel loro stile, acida e piena di energia, ma col freno tirato. L’altra menzione d’onore va certamente all’intreccio chitarristico e tastieristico di “The Last Act, Every Time” che rasenta il capolavoro. La melodia è costruita in modo tale che sembri che la canzone si spezzi nettamente in due: le voci che tentano di cullare e le chitarre che graffiano, tutto messo a bollire nel calderone creato dalle tastiere. Straniante è dir poco, e i suoi cinque minuti passano lasciandoti stordito.
Alla fine del quindicesimo minuto (“Changes In The City” è un’orgia sonora, meno immediata delle due jam di “Each One Teach One, ma pur sempre efficace), avrete voglia di ascoltarlo di nuovo. Alla fine del secondo ascolto capirete la sensazione che avete avuto ascoltandolo la prima volta: questo è un grande lavoro, e di questi dischi ne escono veramente pochi ogni anno.