Ed Harcourt – Strangers

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Il ritorno di Ed Harcourt è un disco dolce/amaro, sospeso tra un intimismo acustico e una ricerca di pop classico di Here Be Monster.

Attendevo con un po’ di ansia questo lavoro per vedere se il buon Ed fosse stato influenzato dal piccolo Sondre Lerche, con cui è andato in tour per tutto l’anno passato. All’ansia si aggiungeva anche un po’ di timore, visto che a Sondre la convivenza non ha fatto molto bene (Two way monologue non è poi il massimo..). Ma parliamo della musica di Ed. Strangers è il perfetto bilancio tra Here be Monster e From Every Sphere, il problema è che pecca di “mancanza di Maplewood” (leggasi ispirazione). Il disco alterna alti e bassi, momenti più ispirati ad alcuni meno, ottime canzoni di pop classico e tutti i difetti di una classica pop song.
In generale non c’è quell’equilibrio che rende il disco più stabile, se non in alcuni pezzi. Il più delle volte Ed cade in arrangiamenti banali su canzoni che potevano essere interessanti, o in arrangiamenti piacevoli su strutture troppo scontate.

Il disco parte alla grande con un piano molto Divine comedy (Black Dress) e una seguente bella chitarra invocatrice di tempesta (The storm is coming). Ma è una flasa partenza, e subito dopo le idee si appannano: quante “born in the 70’s” e “This one is for you” avremo già sentito? Fortunatamente è sempre un pop piacevole, e il calo più di tanto non si sente, anche perchè l’ispirazione torna subito con la seguente title track: Strangers, giocata su arpeggi di chitarra e un bell’hammond; senza eccessive sovraincisioni e con un coretto finale non irresistibile ma che fa centro.
Se il disco fosse tutto così saremmo a posto! Il problema è che c’è ancora metà tracklist da sentire, e questa metà non riesce a brillare come la precedente, appesantita troppo dal terzetto Something to live for – The trapdoor (e si riscopre l’acustica in pieno) e The music box. Brani lenti, intimi, con una voce sentita, ma solo dal povero Ed. Forse sono troppo pretenzioso io, o forse Ed ci sta abituando troppo a queste canzoni che ormai sono un suo stereotipo.
A questo punto, dopo tre pezzi lenti il brano ritmato “ci sta tutto”, ma qui arriva la mazzata: Loneliness è in assoluto il brano più brutto mai composto da lui: un tappabuchi di 3 minuti con un controcatto femminile sciatto e con un chorus che c’ho ancora i brividi (“lonelineeeeeees, lonelineeeeeees,what will i do without you?”).
A poco serve il bel piano di Open book e Kids (altro pezzo degno di nota dell’album), il disco si chiude con l’amaro in bocca.
In un certo senso si potrebbe paragonare questo Strangers a una candela, che all’inizio brucia allegramente, ma col tempo, incomincia a farsi sempre più fioca, si spegne e resta solo un fastidioso fumo ad invadere la stanza.

Sembra proprio che Ed Harcourt non abbia ancora trovato la sua forma ideale d’espressione, perso tra un pop piacevole ma non d’elite e un cantautorato folk forse troppo ovvio, che regala spazio agli strumenti e ai loro suoni peccando nella forma canzone. E’ per questo che, ad ogni paragone cui accostate Ed Harcourt nei suoi brani (Da Wainwright a Badly Drawn boy ai Tindersticks) lui sta uno (o più) gradini sotto.