Porcupine Tree – Lightbulb Sun

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I Porcupine Tree hanno rappresentato al meglio la fusione di attitudini psichedeliche figlie delle esperienze underground del rock inglese anni 60/70, alcune suggestioni space rock portate alla ribalta dai Gong e qualche elemento del progressive meno spocchioso. Gli esordi con la gloriosa scuderia inglese “Delerium” intorno agli inizi degli anni 90 poneva la band come ideale risposta al movimento Paisley Underground fiorito qualche anno prima in America, più precisamente a ottime bands come Green on Red e Dream Sindacate. Ma di lì a breve il sound del gruppo, capitanato da quello che viene considerato uno dei musicisti di maggior spicco della scena rock odierna, Steven Wilson, sarebbe lentamente mutato in un rock elegante di pregevolissima fattura, dove gli spunti psichedelici diventavano squisite suggestioni oniriche. Un percorso del tutto simile all’evoluzione stilistica vissuta dai Pink Floyd tra il 1969 e il 1975. Nel 2000 la mutazione genetica del sound del gruppo è già stata portata a compimento, passata attraverso un album straordinariamente vario come “Signify” ed un altro transitorio, ma comunque ben riuscito, come “Stupid Dream”.
“Lightbulb Sun “ si presentò sul mercato piuttosto silenziosamente, ma il suo valore artistico è di straordinario spessore. Ascoltando brani come le pacata title track o la anthemica “Shesmovedon” si capisce quanto i Porcupine Tree siano cambiati solo rispetto a qualche anno prima, in cui amavano alternare elettronica a psichedelia, sperimentazione a leggero progressive rock. Al contrario in questo album vi è una ricerca più consapevole della forma canzone e la costruzione di uno stile a conti fatti meno pretenzioso ma più personale, più raffinato, peraltro già inaugurato sul precedente “Stupid Dream” ma con risultati meno convincenti rispetto a questo album. Questo nuovo orizzonte stilistico si dimostra terreno fertile per mettere in luce le capacità della sezione ritmica Edwin-Maitland, ad assoluti livelli d’eccellenza su “Hatesong” (riff di basso iniziale da reale ipnosi) e specialmente sulla stratosferica ed onirica mini-suite “Russia on ice”, ideale crocevia tra passato e presente dei Porcupine Tree, brano dove prendono luogo bellissimi giochi di luce ed ombre, atmosfere da sogno alternate ad altre maggiormente heavy, in cui uno smagliante Chris Maitland da prova di rara fantasia esecutiva alla batteria. Altro elemento che sembra prender campo è un uso abbastanza frequente della chitarra acustica come ulteriore elemento ritmico, che tende a rendere più caldo il risultato sonoro finale – a tratti realmente da brividi – laddove essa viene utilizzata.Richiard Barbieri, il tastierista, e Steven Wilson rappresentano comunque sia il vero punto focale del nuovo sound del porcospino, i due sembrano gareggiare nel proporre sonorità talvolta liquide, talvolta sognanti, talvolta più in linea con certo rock di maniera, riuscendo nella complicatissima impresa di far coesistere sonorità destinate altrimenti a concezioni più squisitamente sperimentali con schemi che richiamano un rock di convenzionale derivazione. Le tentazioni space rock non sono comunque del tutto smaltite, anzi emergono con una certa evidenza in “Last chance to evacuate planet earth”, in cui i riferimenti cosmici sono già chiari sin dal titolo della canzone, e trovano conferma nelle atmosfere dilatate che la caratterizzano. Qualche timida concessione a sonorità più easy listening (”The rest will flow”) giusto per tentare l’entrata nella programmazione di qualche radio, in agguinta ad un paio di episodi realmente toccanti nel loro incedere scarno e pacato (“Feel so low” – “Where we would be”) concludono questo caleidoscopio di rara intensità, che consiglio caldamente agli amanti di certe forme di rock dai tratti sofisticati. Non sarà il disco più bello o significativo dei Porcupine Tree, ma senz’altro una tappa fondamentale della loro evoluzione artistica.