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I Frausdots dicono di essersi formati nel 2002, dopo aver visto un concerto dei Cure. Come premesse non c’è male, e per un gruppo che rispolvera la new-wave velata dark questo è il momento giusto. Quindi mano alle chitarre taglienti, alle voci cariche di reverb e a tastiere e synth, ed ecco pronto Couture, coututre couture. Un album che non brilla certo per innovazione o originalità ma va direttamente a porsi tra quello spazio che c’è tra Interpol, Elefant e Cure di adesso. Il disco è piacevolissimo, con pochi momenti bassi, che in fondo non sono mai sotto la sufficienza e qualche alto. L’album parte proprio adocchiando gli interpol, con l’incedere cadenzato di Dead Wrong che si apre nel chorus e prosegue con il ritmo sostenuto di Fashion Death Trends, col ritornello che da il nome al Lp. Una new wave in piena forma, resa acida da telecaster e dolce dalle 2 voci (Brent Rademaker e la compagna) Michelle Loiselle che si supportano tra loro. Dalla Terza traccia il disco prende una piega un po’ troppo Robert Smithiana. Colpa del loro eccessivo amore o colpa di un O’Donnel ospite speciale? Già, perché il tastierista dei Cure appare in questo disco come guest star, aiutando i Frausdots a focalizzare le idee. Difficile dire se è stato un bene od un male. Certo la maturità musicale e nei suoni che c’è in questo Couture è difficile raggiungerla al primo album, ma a controbilanciare c’è il sound un eccessivamente simile a quello dei Cure. Alcuni esempi? Broken Arrows ha la batteria e l’incedere di the Figurehead, Contat quella di The hanging garden. Certo non si può parlare di plagi, anche perché i chorus distraggono e ingannano, ma di forte (molto forte) ispirazione sì. Soprattutto se si sentono pezzi come Current Bedding e Tomorrow’s sky… praticamente delle b-sides dell’ultimo periodo dei Cure. Peccato per O’Donnell, invece di dare prova di essere un tastierista vario e versatile si limita a timbrare il cartellino come un operaio facendo la solita identica Roland di archi ormai trita e ritrita.
La forte venatura, sebbene come detto macchia a tratti il lavoro, è comunque bilanciata e intervallata da altri pezzi: A go-see (in pieno stile 80 rispolverato) e The Man who… (una ballad un po’ traballante), gli unici forse che brillano più per personalità propria.
Le idee ci sono, i suoni anche, il gruppo prometterebbe molto più di quel che è, se solo copiasse molto meno.