Volendo riassumere la serata a brevi parole si potrebbe dire: Lento – Concettuali, Eternals – Coinvolgenti , Liars – Creativi. Ma ogni cosa ha il suo rovescio della medaglia, e non sempre di quella medaglia vediamo il lato giusto. La verità diventa quindi Lento – Pallosi, Eternals – Monotoni , Liars – Devastanti.
In un Circolo degli Artisti che si riempie di affezionati pian piano i primi a salire sul palco sono i Lento. Ora io più di tanto sui Lento non vorrei scrivere perché poi mi danno del cattivo, dico solo che sono uno di quei gruppi che ti fanno pentire di essere arrivato puntuale e non in ritardo. Un post rock trito e ritrito con il solito schema di lenta carica fino alla deflagrazione. Va bene su una canzone (morning song), ma su 5 no. Se poi basta una proiezione sbagliata sullo schermo a mandare tutti in palla allora proprio non va, e gli sbadigli della gente nelle prime file testimoniano il fatto. Bocciati su tutta la linea. Seguono sul palco gli Eternals che con il loro misto di Dub/funk tirato risvegliano gli animi e incominciano a scaldare la folla. Ottimo il batterista che, oltre a sembrare il padre di Dave Rowntree dei Blur, regge tutto il gioco melodico di ogni canzone impartendo stacchi e accelerazioni su cui il basso costruisce linee dub ma soprattutto su cui il cantante può scatenarsi con movimenti epilettici che lo rendono una scheggia impazzita. Unico appunto da fare il sound un po’ carente. Le 2 tastiere presenti vengono usate un po’ troppo per i suoni fini a sé stessi (puro riempimento) e troppo poco per creare melodie/accordi aiutando la canzone. Un set energico e tirato, forse un po’ troppo lungo ma comunque un’ottima prova della band di Chicago.
Arriviamo infine ai Liars, scenici già appena salgono sul palco. E’ innegabile la creatività che i 3 hanno dentro, la strana e assurda concezione di musica che va al di la di basi e tempo, di strutture e verse/chorus. Batteria priva di tom al centro più un timpano e rullante aggiuntivi a disposizione del chitarrista con il suono “falsato” da flanger e riverberi (ecco, un timpano col flanger invece di fare tomb-tomb fa tipo tuaumb tuaumb), una jazzmaster acidissima che graffia e strilla, carica di effetti dilanianti e una diavoletto che avesse avuto 2 corde invece che 6 non sarebbe cambiato nulla. Ma non è certo la base tecnica e la strumentazione che fanno la musica. Soprattutto per un gruppo come i Liars.
Entrano sul palco e pensi siano arrivati gli alieni. Il batterista vestito a strati (strati che riveleranno puoi un costume da ballerina) il chitarrista con quei capelli a scodella manco fossimo in epoca baggy e una pertica umana di cantante, altissimo e snello come pochi. Entra con una maschera fatta di piume che gli copre il viso, si avvicina al microfono, si presenta … poi… “ we don’t speak italian, the only word we know is…” e parte un urlo al microfono modificato che dà il via ad una danza tribale/funk/punk/electro e altri 3-4 aggettivi a caso. Come un interruttore on-off i Liars impazziscono, esplodono, incominciano a fare una caciara più o meno ordinata allucinante, col cantante che grida qualche cosa (o qualsiasi cosa) al microfono, saltellando goffamente qua e la sul palco, salendo ora sugli ampli e buttandosi nella folla, imbracciando la diavoletto (che in mano a lui sembra una chitarra della fisher price) e spostandosi da un microfono all’altro. Per conto loro , gli altri componenti del gruppo, si consumano su questi ritmi: il batterista è un metronomo che costruisce parti complicate alternando (quasi senza senso) la successione dei pezzi di batteria creando pattern che rompono i 4 quarti nella loro complessità tecnica e sonica. Il chitarrista, quando non picchia anche lui sulle pelli, suona praticamente con l’orecchio appiccicato all’ampli, come a non voler lasciarsi sfuggire ogni minimo feedback della sua amata chitarra.
Le canzoni si articolano in maniera strana, i pezzi degli album affiorano durante improvvisazioni, come apparizioni casuali che escono da una lunghissima jam. Ogni tanto ci si ferma, si riordinano un po’ le idee, ma basta una parola, un tempo buttato lì dal batterista che si riparte.
Il gruppo impressiona il pubblico, sembrano indemoniati, posseduti da uno spirito che evocano e comandano con un tribalismo rumoristico e futuristico. Hanno un karma, una sorta di energia che puoi quasi vederla come alone, un'urgenza di comunicare libera da schemi e restrizioni, dalle prigioni dei 4/4 a quelle degli accordi.
In un certo senso creano anche un po' di turbamento… hanno quella cattiveria incontrollata e folle che farebbe sembrare Bobbie Gillespie dei Primal scream un bravo scolaretto alla Sondre Lerche. Sembrano (sono?) dei pazzi, ma dei pazzi fottutamente creativi e devastanti. Dovrebbero registrare ogni loro concerto per le idee e le sensazioni che riescono sempre a provocare.
Unico effetto collaterale di si tanto genio è il mal di testa! a un giorno di distanza mi sento ancora come se avessi nel cervello gli Urusei Yatsura che fanno le prove, e sento sempre un ronzio stile “pista di atterraggio fiumicino”!