Rhys, Gruff – Yr Atal Genhedlaeth

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Gruff Rhys si toglie l’ingombrante superpelliccia e approda all’esordio solista con l’inpronunciabile yr atal genhedlaeth.
Il disco, come si lascia ad intendere, è tutto in lingua madre, la stessa che caratterizzava i primi Superfurry animals e prima di loro i Ffa Coffi Pawb. Lingua che a un primo ascolto può sembrare assurda per la sua a-melodicità, ma ha in sè una certa musicalità tra le vocali (poche) che ci sono e i suoni gutturali che assumono una valenza quasi ritmica.
Il confronto con la precedente carriera, quando si parla di lavori solisti, è impossibile da evitare, e anche qui ci si chiede “è meglio? È peggio? Quanto c’è di superfurry qua dentro?”. Coloro che seguono i Superfurry Animals sanno che Gruff la in mezzo è “er capoccia”, quello che ci mette testi, basi musicali, strutture e anche idee. E sentendo il disco gli si riconoscono questi meriti, ma altrettanti ne guadagna il resto della band.
Sotto il punto di vista del sound complessivo, infatti, gli album dei Sfa sono sicuramente maggiori: più curati, più omogenei e uniformi, con una particolare ricerca ed amore per il suono di synth e per l’atmosfera che a quest’album un po’ manca. Yr atal genhedlaeth porta la mente molto più indietro nel tempo, agli esordi di Moog Droog ep e In space ep, lasciando intravedere qualche sfumatura alla Fuzzy logic. C’è quell’impeto, quella necessità di fiondarsi subito sullo strumento ed iniziare a suonare che i SFA maturando hanno perso per una consapevolezza musicale che li porta a curare qualsiasi sfumatura. Volendo fare i pignoli per fare un giusto confronto dovremmo tirare fuori il progetto MWNG, che in un certo senso può essere definito il predecessore/ispiratore di questo lavoro. Un album dove il gusto per la canzone classica/oldies coinvolge l’uso della lingua madre, dove una sottile malinconia si trasforma in abbandono, e per cantarla basta anche un’acustica, fanienete se è un po’ scordata.
Non trovano spazio, tuttavia, i classici omaggi a Beatles e Beach boys: Yr atal genhedlaeth non è un disco di ricordi né dì rimpianti. Anzi a dirla tutta non è neanche uno di quei dischi della serie “Se fosse per me dovremo tutti suonare così”.
Nonostante l’intro omonimo o pezzi come caerffosiaeth lascino presagire qualche cosa di eccessivo e acido alla Guerrila, visto anche l’amore di Gruff per l’elettronica e le breezeblock session, il disco è riflessivo, molto cantautoriale (pwdin wy 2), e conservando le solite schegge di follia, i ritmi catchy e fulminanti, viene portato avanti da un Gruff che affronta la prova solista non come possibilità di produrre un nuovo sound, ma come bisogno quasi terapeutico di sfogare il proprio estro creativo, di dare via alle sue idee così come vengono, senza pensare al confronto con l’album precedente o al pubblico di fans.
Lo spirito che si respira è molto probabilmente lo stesso che gustò Coxon con il suo The sky is too high: l’aspirazione di poter fare tutto da solo diventa quasi l’esigenza-traguardo [Non faccio un disco da solo per suonare tutto come dico io, io suono la mia canzone e poi me la aggiusto come meglio credo] e invece di spronare la creatività dell’artista (che potrebbe gioire nel vedersi bassista, batterista e tastierista tutto in una volta) acconsente anonimamente ad ogni sua melodia, producendo un accompagnamento a tratti ovvio, come compagno silenzioso in un percorso che non avendo una partenza definita né una precisa meta ha valore in quanto viaggio in sé.
Ma come ogni viaggio prima o poi ci si ferma e si tirano le somme..(stringendo, ‘sto disco è bello o no?). La risposta è sì, ma solo per uno della cucciolata Superfurry, solo quindi se conoscete almeno Fuzzy logic, Radiator e Phantom power. E in questo caso il disco vi colpirà svelandovi parte dell’animo di Rhys che difficilmente si lascia catturare. Altrimenti il disco non vi dirà assolutamente nulla, anzi, sembrerà un lavoro alla Democrazy di Damon albarn, un paio di accenni, qualche melodia sparsa ma tanta sensazione di incompletezza, di approssimazione, quell’impressione di incompiuto che porta a chiedersi “ma valeva la pena o era forse meglio restare chiusi in studio qualche giorno in più?”.