Rocklab: Iniziamo con una presentazione: Chi sono i Jetlag, come si sono formati e come hanno iniziato a fare musica.
Jetlag: Il nostro sito ci illustra propriamente, chi siamo e cos’è il nostro Jetlag (www.jetlag.tv) L’unica cosa che lì manca è la storia del nostro incontro. Diciamo che per questioni più o meno legate alla musica ci si conosceva da anni. Per qualche strano caso della vita, si siamo dunque (ri)trovati a lavorare su un disco rock nel gennaio 2003. Nel frattempo, visto che era un periodo sentimentalmente difficile per tutti e tre, ci si frequentava anche al di là delle prove per quel disco (che alla fine non abbiamo mai realizzato), tirando il più delle volte l’alba a discutere degli affaracci nostri. In quel contesto, tra dolori privati e deliri lisergici, abbiamo quasi per scherzo iniziato a scrivere brani che pensavamo come un’ideale colonna sonora per spot o eventuali immagini da montarci in futuro. Abbastanza in fretta è nata l’idea di far interpretare quei brani dal sottoscritto, Emilio, insieme con ospiti esterni. Ne parlammo con Sony, la casa discografica di Livio senza crederci più di tanto (davvero il progetto era a un tempo molto ambizioso ma anche ludico, quasi scherzoso) e come succede in questi casi, l’ironia della sorte ha voluto che l’etichetta sposasse subito l’idea, paradossalmente mettendoci in condizione di lavorare seriamente sulle nostre idee. Che ovviamente hanno avuto libero sfogo.
Da lì è nato Jetlag, che, come già scritto, in realtà ha avuto subito un lato che trascendeva l’aspetto musicale del progetto, essendo nato come ideale accompagnamento a immagini.
Poi il tutto si è sviluppato…
R: Le varie collaborazioni presenti nel vostro debutto sono state filtrate e influenzate dai Jetlag, ma da chi sono influenzati gli stessi Jetlag? Livio è il chitarrista dei Bluvertigo, ma qual è il background musicale degli altri 2 componenti? Proprio ieri al concerto di Megahertz ho scoperto che Emilio Cozzi ha un passato “metallaro” con ben 4 dischi alle spalle!
J: Certo, Livio è il chitarrista dei Bluvertigo, una band che, dal mio punto di vista, in quanto a eclettismo non ha certo molti rivali (e non solo in Italia). Inoltre è un produttore molto apprezzato (basti citare le ultime due uscite di Giorgia, il Greatest Hits e Ladra di vento) anche per le sue collaborazioni con artisti internazionali. Questo per dire che in effetti le sue influenze sono molteplici, quasi per esigenza professionale. Un produttore che voglia far bene il proprio lavoro deve necessariamente essere un ascoltatore attento e “affamato”. Da questo punto di vista Livio ha un’apertura mentale a 360 gradi. Davvero ascolta di tutto. E’ peraltro un grande esperto di tutto ciò che riguarda gli anni 80, dal rock al pop, passando anche per le più oscure sperimentazioni sonore. Jacopo condivide
con Livio la passione per generi diversi. E anche lui è un ascoltatore molto malleabile. Passa tranquillamente dalle sperimentazioni dei Naked City al pop più orecchiabile. Io invece ho un passato “pesante” essendo stato per quasi 10 anni il cantante dei Kaoslord, l’unica band metal italiana a essersi esibita al Foundation Forum di Los Angeles, con gente come i Korn.
Penso che questa molteplicità di influenze si riscontri nel nostro disco. Per quanto decisamente orientato verso sonorità di matrice elettro-pop, dopo ascolti più approfonditi On the Air può rivelare diverse sorprese. Anche perché coinvolgendo attivamente artisti esterni al nucleo centrale di Jetlag, inevitabilmente i brani si sono “aperti” a suggestioni talvolta impreviste rispetto alla loro forma embrionale. Basti ascoltare i pezzi eseguiti da Michael Bland e Sonny T., ex New Power Generation di Prince: il loro apporto è fatto da sfumature incredibili, di quelle però che noti al quarto o quinto ascolto del disco. Era questa la sfida di Jetlag. E noi l’abbiamo accettata di buon grado.
R: La definizione di Ghezzi nella prima traccia rappresenta un po’ lo spirito delle collaborazioni del disco: persone che si trovano fuori fase rispetto alla loro solita esistenza. Ogni artista chiamato a collaborare mette nel disco qualcosa di suo, che però si muove in un contesto che propriamente non gli appartiene, ognuno dà del “suo” pur non essendo “il solito suo”. Che ne pensate di questa definizione [che andrà nella recensione!]?
J: Coglie perfettamente lo spirito del progetto e cristallizza il “concetto” su cui On the Air si muove. Non perché il disco sia tematicamente omogeneo (come possono essere alcuni concept-album di musica progressiva o rock anni 70). Semplicemente, nella sua varietà, il nostro disco è però sempre e in ogni momento una “de-contestualizzazione” di quello che racchiude. Per questo amo definire On the Air un disco “fintamente” pop.
Insomma, se avessimo voluto fare un disco “popolare” avremmo chiesto a Giorgia di interpretare un lento e non quell’insieme di elettro-rock spigoloso che è Industrial-Appuntamenti maledetti. Pensa anche al pezzo con Mario Venuti, un incedere che in un suo disco troverai difficilmente e un registro vocale, un po’ diverso dal suo abituale, che Mario ha sfruttato benissimo. Anche Amanda Lear è in Jetlag pieno. Interpreta un pezzo che avrebbe fatto vent’anni fa così. E in più ha voluto recitare una poesia di Baudelaire, una delle più belle tra l’altro del maestro. Lo stesso principio di disorientamento e decontestualizzazione è utilizzato nelle grafiche del disco. Basti pensare a quella poltrona d’aereo nel booklet, raffigurata in mille ambienti diversi, o al nostro logo, “Salazoo”, uno spermatozoo salamandra inserito su una sorta di aereo stilizzato.
Che cosa c’entrano? Chi lo può dire? Jetlag appunto.
R: Il progetto Jetlag è molto simile a quello One Giant Leap, disco di qualche anno fa anch’esso ricco di collaborazioni (Rem, Robbie Williams, Tricky,…)…
J: Il progetto One Giant Leap è stato, insieme con Chemical Brothers o Zer07, uno di quelli che ci hanno maggiormente ispirato. Non tanto musicalmente, quanto concettualmente. All’estero progetti come Jetlag sono più comuni. Si ha il coraggio di rischiare e la commistione di arti e generi diversi è vissuta come uno stimolo creativo già da diversi anni.
Noi la pensiamo allo stesso modo, ma in Italia progetti come Jetlag sono rarissimi. Addirittura inediti per ciò che riguarda le produzioni targate da una major discografica. Speriamo che la fiducia dataci da Sony apra qualche spiraglio anche da noi. Ci piacerebbe inaugurare un filone, una sorta di “italian touch” con questo disco.
R: Come sono nate le collaborazioni? Avete fatto canzoni pensando a chi ci poteva partecipare o è stato il brano stesso a chiedere questo o quell’artista?
J: Un po’ tutte e due le cose. Il più delle volte però, appena dopo aver ultimato un brano, si pensava a quale artista sarebbe stato più vicino a quel tipo di sonorità. E ovviamente lo si scartava, proprio per quel discorso fatto prima. Cercavamo cioè un interprete che potesse dare al pezzo qualcosa in più di quello che il brano già aveva. In altri casi ancora, gli ospiti da noi contattati si sono innamorati di canzoni diverse da quelle che noi avevamo loro proposto. Insomma, anche in quel caso Jetlag assoluto. Si procedeva resettando quello che avevamo previsto. E a dirla tutta ci si divertiva molto. Crediamo che questo si capisca ascoltando On the Air.
R: Il singolo di lancio dell’album è Don’t Talk to Me, brano synth pop che strizza l’occhio tanto al dancefloor quanto agli anni 80. Come è caduta la scelta su questo brano? Avete in mente anche un secondo estratto?
J: Abbiamo scelto Don’t Talk to Me semplicemente perché è un pezzo in cui crediamo molto e abbiamo da poco realizzato un video molto particolare proprio perché riteniamo importante il lato grafico di Jetlag (il video dovrebbe girare in questi giorni sulle diverse emittenti musicali. A breve, come tutte le informazioni sull’attività di Jetlag, sarà comunque visibile sul sito del gruppo: www.jetlag.tv).
Inoltre il pezzo dà la possibilità di introdurre il progetto, di presentarlo al pubblico, senza avvalersi di uno degli ospiti presenti nel disco. Una cosa che ci sarebbe sembrata non solo rischiosa, ma, se vuoi, anche poco elegante nei confronti dei nostri ospiti. Insomma, vogliamo anzitutto presentare i Jetlag, che sono effettivamente un trio di produttori interpreti e autori, e, dopo aver creato un precedente, svelare quello che Jetlag significa nella sua interezza, facendo ascoltare alla gente brani collaborativi. Per questo motivo il secondo estratto dall’album sarà È necessario. Con una sorpresa però. Anche qui abbiamo sfruttato il jetlag. Il pezzo sarà in una versione nuova. Chi lo sa? magari cantata da un ospite segreto. Non posso dire di più però. Per scaramanzia e per non rovinare il “disorientamento”, che speriamo sarà positivo ovviamente.
R: Una definizione che darei al vostro album è Moderno. Moderno perché sembra una produzione estera, e non il classico lavoro all’italiana con l’arrangiamento all’italiana. Moderno perché pur avendo un suo filo conduttore ha un’infinità di sfaccettature. Moderno perché è un cd di canzoni, che si sposta ad essere quasi una colonna sonora cinematografica (Il pezzo con Haber), o musica per rappresentazioni teatrali (Il pezzo con la banda Osiris), brani sperimentali fino a ritornare un lavoro dei Jetlag. Che ne pensate?
J: Che continuando a darti ragione, le nostre risposte sembreranno ruffiane. Ma hai colto diversi aspetti del disco che lo caratterizzano davvero. O, meglio, che abbiamo sempre voluto lo caratterizzassero. Dall’inizio abbiamo infatti lavorato con l’intento di fare un disco con diversi livelli di lettura, che suonasse “straniero” pur conservando un occhio attento alla melodia, un aspetto tipicamente italiano se ci pensi. E soprattutto volevamo fare un disco evocativo, denso di immagini. Un disco che ognuno potesse ascoltare facendo un “viaggio” per ogni ascoltatore
diverso ma inevitabile. Che poi è la caratteristica dei dischi che noi tre amiamo.
Se siamo riusciti nei nostri intenti sono gli altri a doverlo dire. In caso affermativo però non possiamo che dirci soddisfatti.
R: Il vostro progetto è musicale ma anche multimediale. Jetlag [secondo me] non è solo musica ma anche grafica ed estetica. Vestite come piloti d’aereo e state progettando del merchandising con il “serpentello del vostro logo”. Mi viene da chiedervi (1) Come mai vestite da piloti? Sembra una domanda banale ma presentarsi sul palco con una propria divisa (Penso anche agli Inglesi hope of the states vestiti da soldati) abbia sempre un suo perché. (2) chi ha ideato il vostro logo. (3) Il logo della Salazo edizioni musicali è un po’ troppo simile al vostro… non vi sarete per caso creati anche l’etichette eg ;-) ?! Come mai questa scelta artistica? Perché avete fatto uscire questo disco con questa etichetta e non con altre label del panorama italiano?
J: Ci vestiamo da piloti, perché, come appena detto, Jetlag vorrebbe essere un viaggio. E noi tre siamo lì a guidare i nostri ospiti e i nostri ascoltatori verso mete immaginarie. Tenendo però ben presente una cosa: che tutti i viaggi sono aperti all’imprevisto, al non programmato. E sono belli per quello, non tanto per la destinazione. Che a volte è secondaria. O che se vuoi è sempre un ritorno a casa. Ma con una ricchezza sconosciuta alla partenza. Proprio per gli incontri fatti durante il percorso e per i paesaggi visti nel frattempo. Ecco il perché del nostro abbigliamento. Il nostro logo è opera di Jacopo e di qualche suo consigliere esterno. È una sorta di spermatozoo, salamandra. La vita nella macchina. Il lato umano in quello meccanico, digitale (che se vuoi rappresenta un po’ anche il disco, On the Air). E il simbolo somiglia a quello della Salazoo Edizioni Musicali semplicemente perché quella è la nostra etichetta di edizioni. L’abbiamo fondata prima che il disco uscisse, perché riteniamo – nonostante l’appoggio di una major come Sony – che l’indipendenza artistica ed economica sia fondamentale per portare avanti il proprio lavoro. E per averne maggior controllo ovviamente. Non è un caso che direttamente si sia investito in alcune attività di Jetlag (a presto, come dicevi, anche nel merchandise, con gadget appositamente studiati e realizzati da noi). Tornando al tuo ultimo quesito, abbiamo lavorato con Sony perché subito si è dimostrata entusiasta e attenta rispetto al progetto. E se ci pensi, come già detto, la proposta di Jetlag non è esattamente una cosa “convenzionale” in un Paese come l’Italia. E a Sony ci siamo rivolti per il rapporto annoso che Livio aveva con l’etichetta. Il ché, sarebbe ipocrita nasconderlo, ha costituito una strada preferenziale.
R: E’ previsto un piccolo tour di promozione per il lavoro? Ci potete anticipare qualche data? Ma soprattutto com’è un live set dei Jetlag? Ricorrete a musicisti aggiunti? Vi piace sperimentare o vi attenete alla struttura delle canzoni? Omaggiate qualche artista con delle cover?
J: Sì, un’attività live è prevista. Proprio in questi giorni stiamo pianificando una serie di show-case/”evento” che vorremmo realizzare, almeno per partire, nelle principali città. Non veri e propri concerti.
Una sorta di eventi multimediali e gratuiti con cui presentare Jetlag nella sue molteplici sfaccettature. Serate a base di visual, grafica e arte insomma. E musica, questo è ovvio. Per quella ci avvarremo di musicisti esterni e di qualche ospite magari anche non presente in On the Air, per rendere ogni serata unica rispetto alle successive.
Dal punto di vista delle interpretazioni, indubbiamente qualcosa di diverso dal disco faremo. Già per una comparsata televisiva abbiamo proposto una versione acustica di Don’t Talk to Me avvalendoci della presenza di Elio Marchesini, percussionista della Scala di Milano che ha suonato anche nel disco.
Per cui ci muoveremo così, facendoci condizionare anche dall’alea delle cose. Come abbiamo sempre fatto. Per ciò che riguarda le cover, chi lo sa? Stiamo pensando in questi giorni a qualcuno dei nostri ispiratori da coverizzare. Forse, ci piacerebbe, inserendo il pezzo da qualche parte, magari in un singolo futuro. Ma intendiamo una cover come un’interpretazione che dà nuova veste e nuova vita a un brano, esaltandone lati diversi rispetto a quelli conosciuti. Per cui la scelta non è facile. Altrimenti si rischia di far rimpiangere alla gente il brano originale e la cosa avrebbe poco senso. Vedremo insomma.