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E’ buio qui dentro! Sto sudando freddo, ma il caldo è soffocante. Seduta, immobile e fottutamente turbata. Una voce sporca e inquietante mi strappa la pelle e mi scaraventa sul pavimento. Il dolore è a mezz’aria e un blues funebre incede mesto e spaventoso. Ora quella voce si fa languida, ma pronuncia parole atroci e quel rock blues lento e opprimente sembra voler nasconderne la reale tetraggine. Un’anima derubata, privata della propria intimità, privata di tutto, in deprimente solitudine, mi annuncia solenne che preferisce la morte, se non può appartenere solo a se stesso “If i can’ t be my own, I feel better dead”. Provo a rialzarmi, ma un’acustica quasi romantica torna a mentire spudoratamente. Complice sempre la stessa voce angosciante, questa volta illuminata da archi che ne amplificano bruscamente la tremenda sofferenza. L’immagine ora è chiara. Un tavolo con sopra una testa di bambino coperta per metà da un barattolo pieno di mosche. Per un attimo quella voce si nasconde. Qualcosa sta cambiando, ora è sconforto, malinconia e quella benefica viola riesce ad addolcire anche la chitarra più tagliente, offrendomi un attimo di respiro. Riprendo fiato e sembra quasi ci sia calma adesso, ma ancora una volta non è così. In realtà è rassegnazione, ammissione delle proprie sconfitte e quella voce prende in prestito la potenza espressiva di un’armonica, per chiedere aiuto “do whatever to get me by”. Ma non c’è tempo per le romanticherie e il sarcasmo prende vita a tempo di un swing paradossalmente allegro e strafottente, adattandosi perfettamente alle sferzate di una chitarra invece cupa e sinistra. Quella voce rientra con il chiaro intento di prendere in giro tutto e tutti, e spietata e delirante adesso chiede prepotentemente di essere lasciata in pace “Let me be, I’m alright”. No, non sono all’inferno, ma la mente di un tossico e la maestria di tre musicisti ti ci sbatte di forza per circa trenta minuti, illudendoti solo per pochi brevissimi istanti di essere stato graziato.