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Potrei parlarvi di “On an island” utilizzando un metodo sicuro ed efficace per la buona comprensione di questo disco. Probabilmente il più noioso e anche il meno soddisfacente nel descrivere le emozioni che questo ha saputo darmi. Poiché non vedo il bisogno di raccontarvi chi sia e cosa suoni Mr. David Gilmour e non credo che possa esistere neanche una persona potenzialmente interessata ad una sola parola di questa recensione che ne ignori la storia e le imprese artistiche. Dunque preferisco raccontarvi di un ventoso pomeriggio di marzo, non ancora tiepido, piuttosto confuso tra la possibilità di persistere nelle noie di un inverno piovoso o se cedere il passo a certi timidi fasci di luce solare. Avete mai viaggiato lungo la strada che da Siena riporta verso Firenze? E’ una strada tortuosa e sconnessa, ma ai lati si scorgono meraviglie inenarrabili, come ad esempio la potenza visiva di un paesetto medievale come Monteriggioni, che si erge su di una collina, fortificata a merletti. Qui inizia la mia scoperta di “On An Island”, un viaggio in auto nel tardo pomeriggio dopo aver visto Siena e le sue bellezze. Accanto a me gli occhi di un passeggero speciale che avverte le mie emozioni durante le prime, chiare note che David affila sulla sua chitarra incantata durante “Castellorizon”, episodio strumentale che introduce al disco. “E’ lui!” dico io. Lei sorride compiaciuta. Non faccio in tempo a riprendermi che ecco che la straordinaria title track irrompe negli altoparlanti della mia auto. E’ una composizione familiare, una ballata calda e suadente in cui la voce di David si mostra con la stessa magia di un tempo e in cui i girotondi armonici richiamano alla mente i vecchi tempi, quando David era la chitarra, la voce e l’anima di uno dei più grandi gruppi che la storia del rock ricordi. “Ha una voce delicata e intensa, perfetta per questa atmosfera..” afferma lei a mio fianco, e io mi sorprendo di quanto vera sia questa frase nella sua pur timida semplicità. La stessa semplicità con cui David Gilmour si concede anima e corpo nell’intenso assolo di chitarra, lo stesso assolo che in fondo suona da 30 anni a questa parte, oserebbe criticare qualcuno, ma maledettamente passionale, comunicativo e ficcante. “Ci sono pure David Crosby e Graham Nash alle voci” precisa lei mentre sfoglia il grazioso booklet azzurro a libretto e il ricordo affiora, le emozioni si fanno ancora più forti quando si legge che all’ organo siede un certo Richard Wright. I chilometri passano, il disco pure, i nostri sguardi si fanno consapevoli nello stare assistendo all’ascolto di un disco straordinariamente bello. Ancora tanta emozione tipicamente floydiana in “The Blue”, il registro si mantiene pacato e ciò spinge ad una velocità di crociera compassata, anche per godersi lo spettacolo dal finestrino e per incrociarsi di tanto in tanto in sguardi che cercano di tradurre senza parole l’impressione del momento. Si alzano i toni ed i ritmi nella sostenuta “Take a breath”, mentre si torna a sognare col sax (suonato dallo stesso Gilmour) di “Red Sky At Night” un intermezzo strumentale dal grande respiro che prepara alla bizzarra “This heaven”, un brano che si trascina sornione tra chitarre acustiche, ritmi sincopati e un arrangiamento da oscar, orchestra e crescendo da applausi. Forse lei non ne può più, le atmosfere sono effettivamente piuttosto ripetute, i registri quasi sempre incentrati su giri emozionali, onirici e molto rilassati che richiamano sovente le medesime immagini; ma nessun fan dei Pink Floyd chiederebbe di meglio, poiché in queste composizioni affiorano tutti gli elementi che ricerchiamo in certi dischi, ovvero poesia, tocco, eleganza, gusto per il bel suono e l’ intuizione dell’arrivo della nota vincente. Quella che apre il cuore. Proprio quella che ripetutamente David Gilmour ci suona in “Smile”, graziosa ballata sulla scia di certe vecchie canzoni dei Pink Floyd come “Green is the color” o “Fat Old Sun”. Ne riporta in modo chiaro l’andamento raffinato, l’evocazione pastorale e l’espressività solare, quasi innocente. Ha il suo apice, oltre che nella straordinaria prova vocale di David che ha mantenuto intatto lo smalto di un tempo, nelle note perfette esibite nel delicato assolo, a sua volta cullato da un’orchestra mai sopra le righe e il coro femminile di Polly Samson. “A pocketful of stones” segna l’arrivo nei pressi della mia casa, quell’arrangiamento orchestrale che interrompe quel magnifico dialogo voce/pianoforte, ha un non so che di cinematografico piuttosto inquietante e conferisce al brano una nota di magniloquenza che piuttosto celermente lascia il passo alle consuete raffinatezze che fino ad ora hanno caratterizzato l’ascolto. E’ buio, la statale pressoché deserta, arriva la chitarra a colmare i vuoti e a farci incrociare ancora gli sguardi sull’ennesimo fraseggio perfetto che David Gilmour ci ha regalato. La composizione che chiude il disco “Where we start” è una piacevole ballata (ancora una volta tipicamente floydiana) piuttosto convenzionale, ma ha anch’ essa i tratti della perfezione, riesce nell’impresa di evocare il concetto dell’addio, la tristezza del fatto che ciò che si sta ascoltando è con ogni probabilità l’ultima canzone che David Gilmour concederà al nostro ascolto prima di una meritata pensione. “Where we start is where we end” visto in questo contesto assume i connotati di una tristezza nostalgica, che inevitabilmente va ad alimentare una speranza infondata quanto volete, ma pur sempre forte, vale a dire quella di poter rivedere il nostro riscrivere ancora col quel gruppo per l’ultima volta, considerato anche e soprattutto lo straordinario stato di ispirazione che ha dimostrato su questa manciata di canzoni. La giornata è finita, così come il disco; un non so che di malinconico avvolge la mia stanza con lei che preme play ancora una volta per cercare tutto ciò che non è stato notato su quella strada, che da Siena ci ha riportato a Firenze sotto una colonna sonora perfetta.