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Scrivo di notte ascoltando il contenuto di un pacchetto arrivato in serata dalla Germania. Il primo giorno di primavera si è oramai concluso e in brianza c’è la nebbia. Nelle mie orecchie si espande la prole meravigliosa di un deprecabile incesto, quello consumato tra “Trust us” e “Timothy’s monster”. A volte si affaccia una versione intimista e contratta del primo, altre una metamorfosi nervosa ed elettrica del secondo. La verità è che i due Motorpsycho rimasti, complice l’abbandono di Geb, fanno tutto da soli: scrivono, suonano e registrano quello che è una creatura tanto imponente quanto affascinante. Bent e Hans decidono di riaffacciarsi con un doppio album e di giocare a tutto campo con scioltezza e potenza, neanche fossero l’Olanda di Crujiff: “Coalmine pony” farebbe impallidire un QueensOfTheStoneAge qualunque; “Hyena” e “The ace” spazzano via intere legioni di giovani inglesini power-pop; “Kill Devil Hills” è la traslazione di una gioventù sonica nel trentesimo secolo con annesso scivolamento finale verso l’incubo; “Fury on earth” si lancia in quei territori NAM tanto battuti da altri gruppi scandinavi. Il resto è pura psiconavigazione ad alto tasso di adrenalina. Questi norvegesi di Trondheim si divertono a rincorrersi, cantano “Sail on psychonaut”, sussurrano “No slow phaseout”, sbottano un “Let them eat cake”. A furia di starsene in disparte a tessere storie semplici di comune smarrimento si ritrovano sul trono a sentenziare “Death to the unbelievers the usurpers of the throne”, sebbene ai poveri musicanti che bazzicano da quelle parti non sia concesso minimamente di avvicinarsi se non per ricevere un dolcetto di consolazione. Proprio “L.T.E.C.” è uno dei pezzi chiave, e quel sottotitolo, “Déjà-vultures blues”, sottolinea come “Black hole/Blank canvas” sia un agglomerato di tutto quello che il gruppo ha prodotto nel corso degli anni, un risultato allo stesso tempo nuovo e familiare in cui, se le basi principali sono (per mio sommo piacere) quei già citati precedenti doppi-album, si ritrovano sensazioni provenienti anche dalla parte più recente della loro produzione. E allora i tratti di quel disco di rose datato 2000 si ritrovano nel corredo genetico grondante di pathos di “The 29th bulletin”, mentre in “Critical mass” confluisce finalmente con convinzione quella voglia di prendere strade nuove che aveva trovato parziale sfogo in “Phanerothyme” e in “It’s a love cult”. La verità che tra questi tessuti immacolati ogni canzone colpisce e fa male, è una serie letale di affondi a cui risulta piacevole soccombere. Bentornati, ragazzi.