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Sedia rimane come sempre il grande esempio sul come suonare certa musica cerebrale totalmente di pancia e di mani, lontani da ogni sorta di intellettualismo soprattutto quando nell’impianto strumentale aumenta l’improvvisazione a discapito della furia scalmanata trasparsa nel primo lavoro. Quel che stupisce degli Sedia ora è lo status di icona materiale e grezza, attorno la quale è possibile costruire un discorso nervoso fluido e lucido, un intricato progetto che lascia tanto spazio alle sonorità che li hanno visti nascere (troppi nomi da citare, come troppo inutile la definizione di math rock) quanto a nuove forme di divagazione sonora, in una sorprendente rete di dinamiche vuoto/pieno/diluito/disarmonico/pieno/vuoto: difatti a stupire è questa volta un songriwintg ancora perfettibile, ma di livelli altissimi, quasi che l’ombra dei geniali Gorge Trio si sia accasata in casa Coletti-Calbucci-Compagnucci ad indicare quali grumi di suono portare avanti e quali lasciare a terra. Entrare nel dettaglio è impresa impossibile quanto errata, perché citare le decine di soluzioni timbriche, ritmiche e di smembramento sonoro snaturerebbe un discorso che trova la sua forza nella coesione istintiva del progetto Sedia. Un plauso di nuovo alla Wallace, lungimirante come al solito nello scovare il meglio di certa musica italiana senza sbagliare mai un colpo. Teneteli d’occhio.