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Alfieri di un suono che ha in Kiss e New York Dolls a priori e in Aerosmith e Guns ‘n Roses di conseguenza la sua inspirazione e spunto emulativo, i Mother Love Bone nascono nel 1988 come valvola di sfogo ed ulteriore esperienza comune per Jeff Ament e Stone Gossard (entrambi futuri Pearl Jam. Qui, fra l’altro, c’è ancora Fairweather alla chitarra), allora transfughi dall’ormai esausta avventura con i Green River. Con loro l’estroso Andrew Wood (il ‘Love Child’ dei seminali Malfunkshun) e Greg Gilmore alla batteria. Se già da queste premesse è facilmente intuibile la ritrosia dei quattro di fronte al rimaneggiamento di punk, metal e psichedelia che tanto impegnerà la progenie futura del Nord-Ovest; in tutta sincerità mi pare inprobabile non storcere il naso, almeno ai primi ascolti, di fronte all’ anacronismo del suono MLB: è infatti ampiamente dimostrata l’inclinazione al “commerciale” che spingeva allora il quintetto, come innegabili appaiono le strizzate d’occhio a glam e street-metal, fenomeno quest’ultimo che fu proprio il grunge a smorzare se non a sopprimere; sono note a tutti e ormai solo frutto di ricordi le pose e acconciature del buon Wood, eppure in tutto ciò c’è una tale naturalezza e semplicità di fondo che il risultato finale risulta talmente ben calibrato da potersi porre senza ombra di dubbio in un’ottica “da stadio” (o come valida alternativa ad essa), mantenendo tuttavia una notevole integrità morale ed artistica pur se celata sotto i vari strati di artifici formali propri di quest’ attitudine. Tra le 19 tracce qui radunate (i due EP ‘Shine’ e ‘Apple’), c’è quindi spazio sia per il versante “cock-rock” tanto caro agli amici losangelini (e qui “This is Shangrila”, “Holy Roller”, “Capricorn Sister”, “Thru Fade Away” e la punta di quest’ iceberg che risponde al nome di “Half-Ass Monkey Boy” fanno bene il loro dovere e anche qualcosa in più); sia per le melodrammatiche interpretazioni di Wood, che in più di un frangente si rende protagonista assoluto imponendoci groppi in gola e occhi lucidi a volontà: nell’ordine, il formidabile finale di “Stargazer”; l’intero inno alla musica di “Man of Golden Words”; l’impianto strappalacrime messo a background in “Gentle Groove” e l’indimenticabile pianoforte di “Chloe Dancer”, che tocca così in profondità da elevarsi a patrimonio collettivo. Menzione a parte per gli inni delle incisive “Stardog Champion” e “Bone China” (ma anche la stessa “Stargazer” è potenzialmente inarrestabile): se l’inoppugnabile moto di casualità avesse inciso diversamente sulla sorte del gruppo (ricordo la morte di Wood per overdose nel 1990 ed il conseguente tracollo della sua già prefissata carriera futura), non sarebbe poi così improbabile immaginare le loro profonde ballate o questi briosi pezzi trainanti fare la concorrenza ai cavalli di battaglia di gruppi ora ed allora ben più noti. Ai nostri invece, è stato concesso solo il torpore dell’ oblio. E per quanto mi riguarda, tanto meglio (visto come se la passa bene Axl?): qui siamo di fronte, oltre ad un gran gruppo rock, alla singola esperienza di un uomo; ad un monito; a un messaggio di sostegno e abnegazione da parte di una band, i Mother Love Bone, che è stata per i giovani gruppi di Seattle l’emblema della coronazione di un sogno, la speranza del “possiamo farcela anche noi”. Credetemi, non è poco. E un grazie a Andy per quel che ci ha lasciato.