Intervista a Areknamés: In Prog!

  • Giunti al secondo album, lo splendido “Love Hate Round Trip”, gli Areknames si pongono come una delle maggiori attrattive in ambito prog italiano. Grazie alla disponibilità di Black Widow abbiamo raggiunto Michele Epifani, tastierista, cantante e leader di questo straordinario gruppo, per fare classico il punto della situazione. Buona lettura!

    Samuele Boschelli: Ciao Michele! Vuoi presentare gli Areknames ai lettori di
    Rocklab, facendo anche un po’ di storia del gruppo?

  • Michele Epifani: Gli Areknames sono nati alla fine degli anni 90 (credo che la prima
    line-up dei Lentofumo, così ci chiamavamo allora, risalga al ’97). Si
    trattava di un progetto essenzialmente volto alla realizzazione di un disco,
    perché in ambito live la mia band principale era l’Arco del Pendolo (band in
    cui suonavano ¾ degli Areknames attuali, mentre Piero era negli Insider).
    Con li scioglimento dell’Arco del Pendolo (2001, credo) Areknames rimase la
    mia unica attività musicale in ambito rock e ovviamente divenne una band a
    tutti gli effetti. Registrammo un demo (live in sala prove) con un
    registratore portatile contenente praticamente tutto il nostro primo album
    (più due pezzi ancora inediti) e lo inviai alla Black Widow che ci propose
    di registrarlo sul serio per pubblicarlo. In questi quasi dieci anni lo
    stile del gruppo non ha subito grossi cambiamenti; diciamo che si è evoluto
    ma non ha cmbiato direzione. Se si confrontano i nostri due album penso che
    si possa capire a cosa alludo…
  • SB: Vi seguo sin dal vostro omonimo esordio di qualche anno fa . Quali
    sono stati i risultati e i commenti su quel disco?
  • ME: Il compito di un disco d’esordio è abbastanza delicato perché crea un’
    immagine pubblica del gruppo e le dona contorni ben definiti; poi ha anche
    la funzione di “rompighiaccio” per il disco successivo. Personalmente mi
    ritengo molto soddisfatto di quel primo lavoro che fu apprezzato in campi
    quasi opposti quali il prog e il doom, con giornalisti e ascoltatori che
    considerarono il disco da punti di vista diametralmente opposti ma con lo
    stesso entusiasmo. Ricordo che in un’intervista qualcuno mi chiese se dal
    vivo suonavo anche le tastiere oltre alle chitarre… Chi mi pose questa
    domanda ovviamente pensava agli Areknames come un gruppo doom
    particolarmente “aperto”… La critica (a prescindere dall’ottica con cui il
    disco era inquadrato) si espresse con pareri lusinghieri (ben oltre le
    nostre aspettative) e l’effetto benefico di questo consenso lo stiamo
    vedendo anche su “Love Hate Rpund Trip” che parte sicuramente avvantaggiato
    e su una base più solida, anzi direi che parte su una base e basta, rispetto
    al primo che uscì letteralmente dal nulla.
  • SB: Pur rimanendo in linea col suono dark emerso sul disco d’esordio, credo che con “Love hate round trip” vi siate ancora più spinti verso strutture più complesse e progressive. Sei d’accordo?
  • ME: Sì e no…. credo che sia più che altro un effetto percettivo dovuto
    all’attitudine particolare con cui abbiamo affrontato il momento della
    registrazione. Rispetto al primo disco, dove ogni particolare era
    subordinato alla sua funzione all’interno del disco nella sua interezza,
    questa volta ha prevalso una carica emotiva più forte e volontà di suonare
    per il gusto di suonare (e divertirsi nel contempo) che indubbiamente ha
    portato un incremento del peso specifico di ogni singolo pezzo. Spero di
    essere stato comprensibile…
  • SB: In generale, che tipo di evoluzione e che tipo di cambiamenti hanno avuto luogo dal primo al secondo disco per gli Areknames?
  • ME: Sicuramente ci sono stati dei cambiamenti oggettivi (come i cambi di
    line-up: l’aggiunta di Stefano alla chitarra e il ritorno di Simone alla
    batteria; un amalgama maggiore dovuta alle esperienze maturate sul palco).
    Però credo, più semplicemente, che siamo maturati come persone e musicisti.
    C’è sicuramente una consapevolezza maggiore dei propri mezzi e dei propri
    limiti da parte di tutti i membri del gruppo. Per quel che mi riguarda, ad
    esempio, credo di aver fatto passi da gigante come songwriter, intendendo
    con questo proprio il rapporto musica-testo (che in questo album adiirittura
    sconfina nella grafica… “La Chambre” è un quadro di Balthus, un testo, un
    pezzo… Ma nell’ambito del disco non riesco a considerarli come momenti
    separati).
  • SB:Sei l’autore dei testi e delle musiche degli Areknames. Nonostante questo si ha costantemente l’impressione di una musica frutto di lavoro di gruppo. Vorresti svelarci in che modo lavorate e in che modo vengono fuori e si concretizzano i brani degli Areknames?
  • ME: Sì, i pezzi sono miei. Una cosa che ho imparato facendo il compositore
    (perché è questa la mia occupazione principale) è che se si ha ben presente
    chi sia l’esecutore della propria musica si ottengono risultati ben più
    convincenti che lavorando per un’esecuzione, per così dire, astratta. Quando
    scrivo un pezzo per gli Areknames non penso solo a me come cantante o
    organista, ma anche agli altri, ai loro gusti, alle loro possibilità. Questo
    agevola molto la fase dell’arrangiamento in cui in ogni modo partecipano
    tutti attivamente. Nel disco l’unica eccezione a questo modu operandi è “Yet
    I Must Be Something” che è stata composta e arrangiata da me sulla base di
    ritagli di batteria tratti da un’improvviasazione nata per caso durante la
    registrazione di un altro pezzo. Forse è per questo che il pezzo in
    questione è uno dei pezzi “diversi” dell’album (almeno e mio modo di
    vedere).
  • SB: Forse te lo avranno già detto, ma trovo il tuo modo di cantare molto vicino a quello di Peter Hammill, anche se credo che sull’ultimo album tu abbia affinato uno stile più personale. Sei d’accordo?
  • ME: A quindici anni avevo una band che faceva cover… Io cantavo solo in un
    paio di pezzi… uno di questi era “Thank You” dei Led Zeppelin e dopo una
    serata uno del pubblico mi chiese se era un pezzo dei Van Der Graaf…Credo
    che tu possa immaginare da allora quante volte ho sentito paragonare il mio
    modo di cantare a quello di Peter Hammill. Il che non mi dispiace affatto,
    dato che lo ritengo uno dei più grandi e profondi artisti in circolazione!
    In ogni caso sono sempre stato convinto, senza nascondere il fatto che Peter
    Hammill sia una delle mie principali fonti d’ispirazione, di seguire una via
    che era mia e personale. Col tempo credo che questo sarà sempre più chiaro.
    Il fatto che si noti qualcosa già nel secondo disco non può che farmi
    piacere! Vedremo che succederà col terzo…
  • SB: Ti ritengo un ottimo tastierista. Quali sono i musicisti da cui ti senti maggiormente ispirato?
  • ME: Io traggo ispirazione da tutta la musica che ritengo valida e consona
    ai miei gusti senza distinzioni, per così dire, “strumentali”.
    Probabilmente come organista a livello formativo direi che Mark Stein dei
    Vanilla Fudge e Dave Greenslade con i Colosseum sono stati i primi, per lo
    meno cronologicamente, a spingermi verso un certo sound. Poi c’è il grande
    Jimmy Smith… Senza contare il mio backgroung classico (dieci anni d’organo
    sono tanti) che è praticamente impossibile da ignorare (anche volendolo).
  • SB: Come mai avete scelto di “coverizzare” un brano di un gruppo
    oscuro come i Gnidrolog? Da parte mia avete tutta l’ammirazione possibile, ma è cosa abbastanza diffusa scegliere una cover famosa di un gruppo famoso in questi casi…
  • ME: Abbiamo scelto “Snails” perché è un pezzo eccezionale di un gruppo
    eccezionale. Tutto qui. Certo, poi ci sarebbe la possibilità di sostenere
    che Gnidrolog è una band troppo sottovalutata e che magari la nostra cover
    aiuterà il pubblico a conoscerli maggiormente.. E in un certo senso, a
    livello puramente ideale è così, ma sappiamo bene che si tratta di cose al
    di là della nostra portata dato che non siamo una band mainstream, e che
    probabilmente chi si avvicina agli Areknames conosce già quel capolavoro che
    è “In Spite of Harry’s Toenail”. Se poi non lo conosce…. questa potrebbe
    essere una buona occasione!
  • SB: Ultimamente ho avuto modo di ascoltare diverse buone uscite in ambito prog italiano. Quale credi che sia la situazione del progressive in Italia?
  • ME: La verità? Non lo so… Band di ottimo livello ce ne sono (Anatrofobia,
    La Maschera di Cera, Fonderia, Wicked Minds, tanto per dirne alcune) e in
    questi ultimi tempi vedo un po’ di movimento in più rispetto al recente
    passato. Non credo ci sia ancora una vera è propria “scena” ma sono
    fiducioso per il futuro. L’importante è non tradire il concetto base del
    progressive che risiede appunto del progredire… se un genere come il prog
    viene cristallizzato tracciando dei confini troppo netti non può che
    implodere.
  • SB: Progetti futuri?
  • ME: Speriamo di poter suonare dal vivo il più possibile e realizzare un
    terzo disco con gli Areknames (magari, chissà, dopo aver pubblicato tanto
    materiale inedito che abbiamo già pronto da anni!); poi, a livello
    personale, realizzare un disco di musica contemporanea (progetto per la
    verità già in corso) con strumenti acustici ed elettrici…
  • SB: Bene ti ringrazio per l’intervista, questo è uno spazio tutto tuo, usalo per dire tutto quello che non è emerso nelle domande che ti ho fatto! A presto e complimenti per il disco!
  • ME: Ti ringrazio per avermi dato la possibilità di far conoscere meglio
    gli Areknames a tutti i lettori di Rocklab, per quanto sia possibile farlo
    dalle mie risposte. Un grazie a tutti coloro che ci hanno supportato in
    questi anni, e un grazie in anticipo a coloro che lo faranno dopo aver
    ascoltato “Love Hate Round Trip”. Vive la Trance!