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Apparizione miracolosa. Di quelle che quando va bene si verificano un paio di volte al lustro, quando va bene per l’appunto. Un ritorno atteso e dato quasi per scontato dagli appassionati, dopo il ripescaggio delle sue vecchie registrazioni avvenuto qualche annetto fa e che, sia lodato, ne ha ricondotto l’obliato nome in degna auge. Ma che i risultati potessero essere davvero tanto esaltanti non lo avrebbe detto e sperato neppure Pangloss. Candi Staton è certamente tra le più grandi interpreti del Soul sudista mai apparse sulla scena americana, in virtù di un timbro di voce assolutamente inconfondibile, sofferto, viscerale ma al contempo suadente, pastoso. Toccata da mano divina, indubbiamente. Ma toccata purtroppo anche da ben più terrene dita di quelle della misericordia e di madre natura. Le mani di un marito violento e possessivo che hanno trascinato la Staton in un lungo vortice di abusi e sopraffazioni tali e tante da gettarla indifesa e prostrata tra le nefaste nebbie della dipendenza dall’alcool. E quel successo che non le arrise mai quanto realmente lo meritava parve un sogno definitivamente svanito alla fine degli anni settanta, periodo nel quale trovò provvidenziale ancora di salvezza nella musica sacra, in quel gospel da preghiera che se da una parte fu strumento di redenzione sembrava anche averne limitato le potenzialità artistiche o quantomeno la fruibilità della sua opera, data la decisione di dedicarsi soltanto alle celebrazioni da rituale. Non ci è dato sapere come e perché ma qualcuno di molto importante è riuscito a riportarla alla profanità e al mondo tutto; si tratta di Mark Nevers, membro dei Lambchop e produttore dal raro senso estetico che in combutta con Will Oldham ha intessuto una tela superba e sobria, degno sfondo per le strepitose melodie tracciate dalla voce di Candi, fatta di un caldissimo organo B3 (suonato dal divino Barry Beckett, anch’esso strappato ad un improvviso ritiro delle scene), sdilinquirsi di corde di pedal steel, bassi rotondi, vaporosi fiati e misurati preziosismi pianistici.
Il patrimonio musicale scelto dal produttore e dalla cantante scorre dai vecchi successi di Merle Haggard, Dolly Parton e Charlie Rich, resi con grande trasporto e traboccante personalità, fino ad episodi inediti usciti dalla mai sufficientemente lodata penna di Oldham e a quattro dolorose confessioni autobiografiche vergate dalla Staton. La qualità media di questo dischetto è tanto alta da rendere vano ogni tentativo di segnalare una perla particolarmente luminescente; se il buon Will è stato mosso alle lacrime dal primo ascolto della title track a noi tutti risulterà difficile non avvertire i proverbiali brividi freddi davanti ad una traccia tanto intensa, ma non meno clamorose saranno le sensazioni evocate dall’esordio corale di “You don’t have far to go” e dall’amaro blues di “You really never wanted me” (dura solo due minuti e mezzo e contiene una vita intera…). Uno splendore assoluto che va necessariamente a collocarsi sul mio personalissimo podio delle uscite annuali, ma che in ambito soul disarma qualunque possibile rivale. Nelle sue mani oro, incenso e mirra.