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Ho sempre ritenuto peccato mortale seguitare a volgere lo sguardo oltreoceano prima ancora di avere sbirciato curiosi gli angoli ancora nascosti di casa propria, perseverando nell’ignorare in maniera cieca e sistematica quanto di meraviglioso racchiude in sé la propria terra. Il rischio in questo caso è una strisciante e subdola spersonalizzazione che rende il proprio messaggio anestetico se non artefatto e non ne faccio un discorso strettamente musicale; ma se del resto la musica e l’arte sono esperienza, lacrime e sudore, come è possibile svincolare completamente tali suggestioni dal vissuto quotidiano e restare credibili? Lilli Burlero e I.Mago mi perdoneranno per l’ardita e tediosa introduzione, ma le loro canzoni, letteralmente intrise di Romagna, nel ricorrente rimando a luoghi, personaggi e sensazioni ad essa legate a doppio filo, rappresentano quasi un romanzo di formazione al contrario, l’eterno ritorno alla terra madre, culla di leggende, sogni e speranze, come quel torrente umiliato, deviato e ancora ligio al proprio dovere. Le chitarre acustiche sono sommerse dal vibrante abbraccio della fisarmonica, presenza alata che tesse trame di grana grossa e filamentosa ad accompagnare il tono affabilmente declamatorio di Marco Trentini; “San Leo” inquieta e seduce con quelle poche note insistite, un viaggio in carrozza nel bosco oscuro verso il gran ballo, memore del De Andrè biblico e quasi partenopea nella sua improvvisa ebbrezza; e che dire del “Ribisso”, creatura amabilmente mostruosa, figlio delle acque eternato da una murder ballad ambientata in Costa Azzurra d’inverno e interpretata dall’ospite Liana; “ Il Direttore del Macello di Via Condotti” dura poco e si fa rimpiangere tra vaghe reminiscenze Guccini e Branduardi, altro esempio di buon gusto e qualità letterarie (si ricollega una poesia di Ivano Ferrari al ricordo del cadente ammazzatoio dietro casa…). Apice emotivo della raccolta è senza dubbio “Diario sulla linea gotica”, amaro resoconto tra attese e sgomento in una Rimini sconvolta dalla guerra. Gli strumentali sono esili e spumeggianti,una pioggia di carillon in una giornata di nebbia, sapidi e pastosi, di grande atmosfera senza neppur per un attimo ammorbarci di sofismi post rock, un po’ così, “pane e salame”, che se vogliamo è la cosa più buona e giusta si possa gustare. Questo disco mi diletta anche nelle imperfezioni, nei vuoti che un produttore saggio (che per fortuna non c’è) avrebbe forse colmato, negli angoli non ancora smussati. Io vi lascerei proprio così, impuri come la terra nel suo profumo inconfondibile, come la polvere di una vecchia cantina finalmente riaperta.
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