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Se dovessimo fare una lista dei dischi più sottovalutati degli ultimi dieci anni, questo grandissimo lavoro degli svedesi Fireside occuperebbe un posto di tutto rispetto: un digipack bianco, asettico, con un logo davvero orribile e nove pezzi con titoli ironicamente ispirati a vecchi videogames. Ma quelle nove sono canzoni di classe cristallina: in sostanza pop, rock, indie flavour, rumorini e sprazzi elettronici ma non è solo questo. Canzoni godibilissime, ballate strappacuore, pezzi briosi, viaggi lisergici. Da sola l’iniziale Elevator action vale tutto il disco, ed è bello che sia un brivido quello che si prova mentre questa sorta di flusso di coscienza lungo 9 tracce abbia inizio. Uno stream of cosciousness elegante e imprevedibile, meglio della migliore Molly Bloom: tensione, infelicità, felicità, inquietudine, senso di morte, sensi di rinascita, trepidazione, e un vortice di paranoia crescente che culmina con i quasi dodici minuti della title track per poi lentamente ricomporsi su binari più quotidiani, come se l’alba fosse arrivata dopo una notte di pensieri.
E allora mi chiedo il perché di questo quasi oblio, questa trascuratezza di un disco (il quarto per la band di Lulea) che riempie il cuore e anche il cervello, nonostante sia concepito al freddo nord, a due passi dal circolo polare artico. È vero che a volte alcuni lavori necessitano di tempo per essere apprezzati come si deve. La loro grandezza viene solo intuita inizialmente, ma viene davvero compresa dopo che quelle note hanno avuto il tempo di sedimentare. E forse ‘Elite’ era avanti con i tempi, se fosse uscito solo un paio di anni fa sarebbe stato osannato. Invece era l’anno duemila e in tutto questo tempo i Fireside hanno fatto poca strada.
“It’s so hard to be on time” cantano, e ci sta a pennello.