Recs Of The Flesh – Illusory Fields Of Unconsciousness

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Tra le mille cose (belle, brutte o indiefferenti) che questi cazzo di anni zero ci hanno portato c’è la consapevolezza e la capacità di non fermarsi davanti a quella cosa chiamata “confine nazionale”. Dopo un Ep di ottimo livello avviene la diaspora dei tuoi compagni di gruppo? Che problema c’è? Non necessariamente “isola” significa “isolamento”. E allora, reclutata una fidata compagna corregionale alle tastiere, non si ferma il progetto Rec Of The Flesh, ma viene portato avanti assieme a musicisti non italiani, se non addirittura extraeuropei. È andata proprio così: rimasto solo dopo l’ottima partenza con ‘Cigarette secrets’, Massimo Usai (voce e chitarre) recluta dapprima la conterranea Sara Melis alle tastiere, poi ai due si aggiungono dapprima lo statunitense di Minneapolis Justin Wood al basso, poi il catalano Xavier Dilme alla batteria. Ed ecco ‘Illusory fields of unconsciousness’, tentativo moderno di registrare la carne, di fissare su traccia deliri, desideri e distorsioni, realtà, malattie umane e della società. Mi ricordano i Tool di ‘Undertow’, ma non tanto per affinità o divergenze musicali, quanto per l’altissima tensione emotiva che ricreano nelle pieghe delle loro canzoni e che rimbomba negli anfratti della (non)coscienza.
Una compattissima base ritmica e variegate linee di chitarra e di voce (più o meno distorta a seconda del pezzo) danno spesso la sensazione di essere alle prese con una canzone a due velocità contrastanti che crea un senso di smarrimento vero (Social failure, Behave). Di nervosismo portato agli estremi (Burnover, Not easily impressed). Di perdita dell’equilibrio (Friends?). Di paranoia (Solution to non-existing problems, Intensive care unit vi dicono qualcosa gli Alice In Chains?). Di deliri febbrili (Urban tension development swing, noise+dark). Di desolazioni (Revelation from the self, Never forget).
La qualità generale è migliorata notevolmente. L’introduzione dell’uso massiccio delle tastiere ha dato tridimensionalità ai pezzi, ha aggiunto solennità senza togliere in impatto. Ha però dato anche una troppa omogeneità, diminuendo le possibilità di giocare con gli spazi vuoti: in alcuni momenti forse bisognava davvero togliere piuttosto che aggiungere, per dare una dinamicità ancora più brutale (già tenuta in piedi da una batteria sopraffina).
Un disco da ascoltare senza preconcetti, con la testa pronta a imbattersi in un mondo vero, niente storie plasticose e felici, niente cuoricini e melodie sempliciotte da discount indierock, niente gattini. E meno male.