Cult of Youth – Cult of Youth

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New West

Pochi si accorsero, due anni fa, del pur valido esordio griffato Cult Of Youth, A Stick To Bind, A Seed To Grow.

Il settarismo compiaciuto della proposta – un pagan folk solenne e spartano di ascendenza fin troppo smaccatamente perceiana – relegò l’opera prima del cantautore newyorchese Sean Ragon ad un precoce dimenticatoio, o al limite al “culto” della ristretta nicchia di adepti dei cerimoniali ossianici in salsa mitteleuropea. Il nuovo, omonimo Cult of Youth trasfigura l’immaginario foscamente elegiaco del debutto invischiandolo con l’asprezza selvaggia e desolata del profondo sud-ovest statunitense, assurto a scenario metafisico e archetipo universale di quanto di più tribolato e animalesco risiede nell’interiorità umana. L’epopea west a cui si abbeverano Ragon e soci non è luogo di slanci idealistici, cavalcate verso il tramonto, cowboy incorruttibili e indomiti giustizieri, ma assume piuttosto i contorni ombrosi delle più fatalistiche meditazioni di Sam Peckinpah: un deserto scarlatto sciamante di guitti, fuorilegge e rinnegati; la fotografia dell’ineluttabile disfacimento del mito a stelle e strisce – romantico e rassicurante – della frontiera, laddove i Death in June intonavano accorati epitaffi sulle macerie culturali del vecchio continente. Quale migliore ambientazione per storie di vita randagia e sfrenata, alcolismo, tossicodipendenza, umanità viziosa e vizi umanizzati? Se il pensiero vi è andato ai primi Spiritual Front, non siete così distanti dalla realtà.

Partono i primi secondi dell’opener morriconiana “New West” e sembra quasi di percepirla tangibilmente, la foga dei cavalli lanciati verso orizzonti sconfinati nelle viscere di una nube giallastra, mentre l’acredine della saliva impastata di whisky e polvere si fa quasi insostenibile. Le percussioni incalzano, marziali e implacabili, e una recitazione invasata si erge in tutta la sua maestosa decadenza, lambendo territori solcati solo dai Sixteen Horsepower e pochi altri pionieri.

Un sound tribale e forsennato agita anche  la danza pellerossa di “The Dead Sea” e il country caracollante di “Monsters”, concedendosi brevi distensioni nella ballad “Casting Thorns” – in cui Ragon sbrodola, strepita e ulula al cospetto di una luna algidamente diafana – e nella suggestiva “Trough The Fear”, drappeggiata da soavi arabeschi di violino. Notevoli anche “The Pole-Star” – drinking song corale da torpida e bivaccante notte estiva – e “Lorelei”, unica concessione della band al proprio imprinting neofolk.

Ben più di qualche cenno merita invece la sorprendente “The Lamb”: un inizio in sordina (arpeggi crepuscolari e invocazioni all’ombra di un pueblo abbandonato) funge da anticamera per gli ultimi, deliranti 5 minuti, nei quali un arcano rituale sciamanico sfuma progressivamente in baccanali acid psych folk intrisi di bollore febbrile e peyote. Un’estasi dionisiaca e opacizzante che da sola merita l’ascolto del disco.

Che lo si definisca neocountry, country apocalittico o con qualche altro astruso quanto futile neologismo, “Cult Of Youth” allarga la frontiera del roots sound Usa attingendo poco o nulla della strumentazione e le sonorità tipiche del genere, ma richiamandosi ad uno spirito guerresco, liberatorio e depravato che in fin dei conti è l’anima del rock primigenio.