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26 aprile 2011 | Bar La Muerte | myspace.com/ovobarlamuerte |
Marie
Ogni volta che mi ritrovo ad ascoltare una nuova astrusità discografica targata OvO non posso fare a meno di domandarmi a quale pubblico può circoscriversi una musica-non musica del genere (de-genere?). La maggioranza degli ascoltatori, mi sono detto, sarà costituita da sacche di sedicenti
apocalittici desiderosi di “nobilitare” la costellazione dei propri status symbol musicali; poi ci saranno sicuramente i weird seekers e gli irriducibili collezionisti di amenità-musicali-sopra-le-righe-un-tanto-al-chilo, di quelli – per intenderci – che a stento saprebbero distinguere gli Anal Cunt dagli Agoraphobic Nosebleed; qualcuno, forse anche parecchi, potrebbero perfino percepirli con la stessa penetrazione empatica e immedesimazione cognitiva di un carcerato partenopeo che ascolta Mario Merola; immancabile, infine, una vasta fetta di (a)critica specializzata con annessa tendenza ad incensare (in modo proporzionale alle velleità campanilistiche) i dischi che più solleticano i suoi pruriti intellettuali – o semplicemente il suo masochismo uditivo, secondo il principio per cui quanto più una proposta è criptica e spigolosa nella sua oltranzistica impenetrabilità, tantopiù merita di essere glorificata come artistica.
Per carità, gli OvO hanno dei trascorsi di tutto rispetto che si possono quantificare in oltre 10 anni di attività e ben 6 album pubblicati (tra cui il bellissimo “Cicatrici” del 2004, che consiglio a tutti di recuperare); senza contare il curriculum di assoluto pregio che possono vantare i due membri celati dietro il monicker e le grottesche maschere con cui amano presentarsi in pubblico (basti pensare che Bruno Dorella è membro fondatore dei Ronin e collaboratore dei Wolfango, nonchè artefice della gloriosa etichetta indipendente “Bar la Muerte”, grazie alla quale possiamo sollazzarci con zuzzurelloni del Calibro (35) di Zeus! e Bologna Violenta ).
Ciò che volevo dire nella mia verbosa introduzione è che la tanto conclamata (da critica e gruppo) inclassificabilità della proposta, il tanto strombazzato calderone di generi e suggestioni e influenze più o meno subliminali che dovrebbe costituire la sorprendente cifra stilistica della band, sta diventando fin troppo prevedibile nella sua programmatica a-programmaticità. Talmente autoindulgente da sfiorare, forse, l’autoparodia. Ascoltare l’ennesima uscita degli OvO è come tornare a casa ubriachi e sintonizzare il televisore su rai 3 dove stanno trasmettendo fuori orario. Vedi quest’uomo emaciato e sudaticcio con evidenti problemi tricologici, Enrico Ghezzi, che parla di oscuri registi industrial-depressive-gore giapponesi adoperando un linguaggio esoterico.
All’inizio l’impatto è stordente, alieno e in un certo senso magnetico, ma dopo un po’ l’espediente stufa, ciò che destabilizzava si fa clichè stantìo, e quel che resta è la smania di vedere un film che nel caso di Cor Cordium non arriva quasi mai.
Per chi li conoscesse già, la solfa sulfurea è sempre la stessa; per i neofiti si può parlare di una musica minimalista, ghignante e arcigna, che fa del rumorismo dada, del lo-fi abrasivo e della monoliticità purulenta la propria bandiera. Notevole come al solito l’ugola estremamente duttile di Stefania Pedretti, capace di coniare una vocalità che sotto l’apparente nonsense di fonemi sconnessi, gorgoglii strozzati e rantoli bestiali cela un vero e proprio linguaggio espressionista la cui sintassi è data da tutti quei suoni più o meno naturali zampillanti sofferenza e lacerazione (l’accostamento illustre a Diamanda Galas è in parte meritato, basti sentire il picco del disco, l’eccezionale “the owls are not what they look like”, a metà tra colonna sonora thriller e desolazione tribalistica in salsa Neurosis). Dove gli Ovo convincono meno è, ironicamente, nelle canzoni più canoniche (“lungo computo”, “orcus”) o nelle lunghe masturbazioni free-form ambient-drone (gli insostenibili 7 minuti di “penumbra y caos”), gli episodi, insomma, in cui il paragone con i numi ispiratori Swans, Einsturzende Neubauten, Khanate, Darkthrone, Merzbow, è davvero impietoso per consapevolezza dei mezzi e maestria scenografica.
Se vi incuriosisce l’idea di ascoltare dei Sonic Youth lobotomizzati alle prese con una jam art brut nel cortile di un manicomio abbandonato, provate a conceder loro una possibilità; se invece pensate, come me, che il minimalismo possa tramutarsi facilmente in pressapochismo e le velleità cacofoniche, a volte, siano solo uno stratagemma per occultare qualche limite strutturale, allora lasciate il cuor dei cuori a pulsare nella sua nicchia sotterranea.