Personalmente non me ne è mai fregato nulla dell’annosa questione inglese VS italiano. La mia opinione in generale è: cantate in qualsiasi lingua volete, l’importante è che la scelta sia adatta a quello che state proponendo. Se proprio siete indecisi sulla questione fatevi una semplice domanda: quanto contano per noi i testi delle nostre canzoni? Se la risposta è “molto”, allora scegliete di cantare in italiano, perché immagino che i contenuti siano molto importanti per voi ed è bene che i concetti arrivino al pubblico nella maniera più fruibile e diretta possibile. Sembra l’uovo di colombo, e non è un sottovalutare l’intelligenza del pubblico o la sua capacità di ricezione: è ovvio che utilizzare il proprio idioma aiuti a focalizzare il discorso intorno ai contenuti, quello che dite arriverà direttamente, senza filtri, e soprattutto avrete modo di utilizzare una serie di immagini e di riferimenti culturali, oltreché di registri, che vi appartengono direttamente, che impregnano la vostra quotidianità e quella di chi vi ascolta.
Per chi invece sceglie di cantare in Inglese, io vi dico: va bene lo stesso. E voglio anche farvi un regalo, liberandovi dal commento tipico del recensoricchio di turno: l’inglese “maccheronico” non è né un male né un difetto. Questo, attenzione, lo dico limitatamente al discorso pronuncia: avere un accento è normale e… udite udite, all’estero se lo aspettano. Lo accettano, ma soprattutto, non gliene frega niente a nessuno, perché è normale avere un accento: ce l’hanno tutti.
Diverso invece il discorso sulla padronanza linguistica. Se avete vissuto a Londra qualche anno scriverete sicuramente meglio di chi l’Inglese lo ha appreso solo sui banchi di scuola del liceo, e che non avrà altra possibilità che quella di scimmiottare i testi dei suoi artisti di riferimento. Sembra una banalità, ma non è così. Scrivere in una lingua non è solo infatti una questione di grammatica: se la padroneggiate bene avrete a disposizione una gamma di registri e di immagini, di sinonimi e di parole gergali, oltreché di riferimenti culturali e di “visione del mondo” che arricchiranno il vostro scrivere in inglese, e che lo renderanno “vivo”, e non solo un involucro vuoto.
Se invece scegliete l’inglese per darvi una fantomatica aria “internazionale”, “da esportazione” e perché “volete sfondare all’estero” beh… avete preso la strada peggiore. Siete come il parmesan che vuole fare concorrenza al parmigiano, come il cuoco tedesco che vuole insegnare ai giapponesi a fare il sushi… Non ci sono, adesso, in Italia, possibilità di produrre un prodotto da esportazione, ma soprattutto, mutuando tutto il rock dall’estero, non vedo perché dovremmo andare a fare concorrenza a gente che è cresciuta a pane e rock quando noi abbiamo la tarantella ed il cantautorato (concetto che all’estero non esiste) nel nostro DNA. Voi andreste a vedere un gruppo new wave turco che canta in inglese? Forse sì, ma più come fenomeno da baraccone. Ecco, l’effetto è proprio quello lì. A meno che? …A meno che, come i System Of a Down che hanno virato gli stilemi del metal più fracassone al folk armeno, non riusciate ad implementare nella vostra proposta musicale degli elementi unici, tipici del vostro retaggio e della vostra visione del mondo.
I tour all’estero poi ve li raccomando…come quelli degli Afterhours, che vanno a suonare a Londra e a vederli vanno solo i residenti italiani, perché gli inglesi, si sa, vanno a vedere altre cose.
Ultimamente sono diminuiti i gruppi che cantano in Inglese, trascinati da una scena che sembra aver nuovamente avuto una bella presa di coscienza sulla situazione musicale (e non) italiana. Ma non è questo il punto, ripeto, non importa quale lingua scegli. A mio parere questo non è altro che un buon punto di partenza per creare anche e perfino un buon prodotto musicale da esportazione: avere coscienza di sé, e una fiducia immensa e coraggiosa nelle proprie particolarità, nella propria unicità. Non c’è peggior provinciale di colui che rifiuta sé stesso, o che cerca di essere “internazionale” a tutti i costi, pur non essendolo. Ricordatevi sempre del primo Abatantuono, e della sua macchietta del meridionale che tenta di fare il milanese.
Primi della tornata sono i Dieciunitàsonanti da Roma che presentano alla lettura il loro Manuale d’ascesa e caduta. Questo manuale, a dispetto del nome, non sembra voler dare direzioni agli ascoltatori, piuttosto tratta storie, fotogrammi di vita (Il vino buono ce l’hanno i ricchi), o ancora meglio riflessioni ad alta voce che la band vuole condividere con tutti. Va da sé che l’attenzione è spostata più sui contenuti che sulla musica. Mi viene da dire che questo è un album dai toni delicati, imperniato da quella ironia sottile ed un pò amara che solo grandi cantautori sanno dimostrare. Per restare nel nostro ambito posso dire che un prodotto del genere non ha nulla da invidiare ad artisti come Dente, ma presenta un immaginario più tangibile e concreto: anche se sono presenti canzoni che parlano d’amore (Forse solo un’ossessione), sembra che le parole e i concetti espressi siano molto meno romanzati della media dei canori pop italiani, quindi il tutto risulta di conseguenza più veritiero ed intimo (come in Scientifico). Per quanto riguarda lo stile, devo dire che il suddetto genere pop di solito non premia le band, ma favorisce l’affermazione di figure singole, cosa aihmé del tutto sbagliata: l’idea di affiancare al cantante solista i soliti produttori che lavorano sugli album col pilota automatico appiattisce inevitabilmente la personalità e standardizza la produzione. Un punto di forza invece di questo album è soprattutto un certo gusto non banale negli arrangiamenti, che dimostra una determinata personalità, e per le Dieciunitàsonanti non può che essere un bene. Un disco meditativo questo, adatto al lungo autunno di questa società, di cui è critica pungente e disincantata.
La seconda portata di questo servizio viene sempre da Roma e ci presenta i City Final. Voce profonda, sonorità acustiche un pò (neo)folk un po’ The Smiths. Questa volta la cartella stampa non mente e citando anche The National inquadra bene la band e quello che propone (anche se North on Canvas potrebbe sembrare una outtake acustica dei White Lies). I brani sono cantati in inglese e non presentano variazioni di sorta, e qusto album dal titolo How we danced è abbastanza monolitico: sembra quasi che i brani si riversino l’uno nell’altro (e non lo dico come critica, anzi, la qualità della scrittura è indiscutibile e lascia il segno, basta ascoltare Biergarten). Anche a livello di arrangiamenti – molto semplici a dire la verità – non troviamo particolari scostamenti: più che altro le stesse soluzioni sono usate pedissequamente in ogni brano, ed è un peccato, perché un lavoro più accorto sulla produzione avrebbe potuto trasformare questo disco da “interessante” a “molto bello”, ma così non è stato. Per cui abbiamo un lavoro molto fedele alla propria personalità, ma un pò carente di fantasia. Per quanto riguarda la performance vocale, possiamo dire che il cantante è il sosia vocale italiano di Harry McVeigh (appunto frontman dei WL, sentite The Lion’s Tears e capirete) tanto che profondità ed interpretazione sono assolutamente identiche, per cui non mi sento di fare alcun appunto a riguardo. Sempre dalla cartella stampa apprendo che ha partecipato alla realizzazione del disco anche Nicola Manzan, il “prezzemolino” della scena indipendente italiana: sarà il terzo album che recensisco in cui compare come guest star, ma ogni volta non ho mai ben capito a cosa servisse.
Dalla Campania invece arrivano i VenaViola con il loro Smash-Up. Devo dire che è uno dei pochi lavori di trip-hop che mi sia arrivato e lo ascolto incuriosito. Niente male davvero! I brani sono lunghi, di ampio respiro e ben sviluppati nella struttura (come in Black Tide, brano d’apertura di questo lavoro), inoltre ad un ascolto più attento mi sembra di notare una scelta di suoni dotata di una certa deriva twee, che nell’insieme è decisamente affascinante: secondo me da sottolineare ancora di più nei prossimi lavori. C’è una cosa che però non capisco… Perché un italiano dovrebbe sentire parlare della triste condizione dell’emergenza rifiuti a Napoli in un brano in lingua inglese (come avviene in Poison)? Se c’è tutta questa urgenza comunicativa di raffigurare tematiche crude e di essere diretti, concreti e circonstaziati, perché utilizzare una lingua straniera che non condivide con il popolo campano né riferimenti culturali né immagini? Ed al contrario: cosa gli può importare ad un anglofono di sapere che a Napoli c’è un problema di rifiuti e camorra? Come se gli U2 avessero cantato il Bloody Sunday in francese, o Vasco Brondi snocciolasse un verso che suona come “the giant Coop’s neon sign”… semplicemente a mio parere non ha molto senso. Viene più da pensare a provincialismo che non ad una volontà comunicativa internazionale. Eppure sempre dal napoletano veniva una delle band più importanti della scena dub e trip-hop d’Italia: sto parlando degli Almamegretta. I VenaViola avrebbero potuto raccogliere la loro eredità, è un vero peccato. Chissà però che non lo facciano in futuro.