Bologna Violenta – Utopie e piccole soddisfazioni

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“Siete così piccoli, tristi e noiosi, voi non siete niente per me: pezzi di vetro, schizzi di sangue, tutta la rabbia che non hai! Tu non puoi capire, io voglio solo farti male! Ciò che mi circonda è tutto uguale!” (cit. Nerorgasmo).
È tornato Nicola Manzan, pronto a violentare altre notti trascinandoci nella Bologna Violenta di cui è primo cittadino. Messi leggermente da parte i cinefili riferimenti a mano armata (l’Italia di Piombo del cinema anni Settanta è stata ampliamente omaggiata nel precedente Nuovissimo Mondo e in un delizioso split splatter-grind coi Gunzard) Manzan procede con Maurizio Merli nel cuore ma spostando il piano di riferimento dalla fiction (seppur come metafora della realtà) alla società civile odierna. E vuole nuovamente azzerare i filtri narrativi, rigurgitare ogni linguaggio preconfezionato, colpire senza pudore alle parti basse, fare male insomma (come urlavano i Nerorgasmo appunto) e fare male non certo alle nostre orecchie, martoriate sì dalla mattanza sonora ma estasiate dalla matura abrasività finale di questa grind-opera, quanto agli pseudo alfieri e al(lostessomodocolpevole) popolo bue di questa Repubblica.
Il magnetismo intrinseco delle creazioni partorite dalla mente di Manzan risiede nei due poli formativi della sua brillante personalità musicale: da una parte il mondo classico, il violino viscerale e drammatico, che detta pathos senza mezze misure; dall’altra il grind, la ferocia hardcore portata alle sue più estreme conseguenze. In mezzo lo spoken word, lucido e perverso, fatto di cut-up da lettera minatoria, di favole inquisitorie di brutale impatto (“c’era una volta un politico di merda…”).
In Piccole utopie e grandi soddisfazioni, le  21 schegge di suono (della durata media di 1 minuto e mezzo) mantengono grossomodo gli stessi idiomi, prendendosi più d’un appagamento nel tenere alta la bandiera grindcore italiano con assalti frontali quali “Vorrei sposare un vecchio” o “You’re enough”. Non mancano le escursioni cyber-punk  da videogioco ipercinetico (“Sangue in bocca” o il flipper in tilt di “Terrore nel Triregno”), i romantici-preludi allo sfacelo (abbozzi di litanie medievali in “Remerda” e “Lutto della testa”, i monaci in liturgia di “Il Convento sodomita” o il carosello vintage in “Mi fai schifo”) ma soprattutto il lirismo classicheggiante degli archi che si ritaglia spazi maggiori rispetto al passato, offrendo battute d’arresto di meravigliosa catarsi per poi tornare ad inseguire il metronomo anfetaminico. Prestigiosa la collaborazione con J. Randall, voce dei pionieri electro-grind Agoraphobic Nosebless; azzeccatissima quella con Aimone Romizi dei F.A.S.K. nella narcotica versione hardcore-techno di Valium Tavor Serenase dei CCCP.

Va a gonfie vela la “relazione aperta” tra il dispotico Alec Empire (padre delle carneficine degli Atari Teenage Riot), la belligeranza targata Napalm Death, le suite oniriche di Korsakov e le atroci sequenze cinematografiche di Fulci. L’approccio ludico diventa satira del grottesco, l’atto sacrilego si fa avanguardia.
Il fatto che ora Bologna Violenta fotografi con un piglio così personale crudo e funesto (e meglio di tante inflazionate e copiaincollate liriche finto intellettuali) questo Paese, la rende un meraviglioso incubo dal quali non ci si vorrebbe svegliare più.