Probabilmente non appena avrete finito di leggere queste poche righe vi direte che ho appena fatto la scoperta del cazzo. E sarà anche vero, ma sapete, mi sono rotto le palle di quelli tra voi che “già la sapevano prima”, di tutti quelli che si limitano a guardare il mondo in attesa che qualcuno voglia dire la propria, per poi fargli sapere con un sorriso scaltro che già era stato detto o fatto da qualcun altro. Io voglio parlare, lasciatemi divertire.
Vi confesserò, non so voi, che da qualche tempo sento una profonda insoddisfazione. Sento un senso di vuoto e di inutilità, oltreché lo sgradevole sentore di uno scollamento rococò (gli Arcade Fire ce lo avevano detto anni fa?) rispetto alla realtà e dalla storia quando vado per concerti nei locali e nei club più generalisti. C’è un meccanismo innescato dal web che funziona così: una band diventa figa quando chi detiene i trend dice che è fica, e allora tutti a parlarne (perché quando si inserisce quel nome in un articolo genera click e discussione).
A un certo punto viene fuori un’altra band (i nuovi x, i nuovi y), e allora la prima cade nel dimenticatoio e tutti a parlare di (e a fotografare) la seconda. Ora la domanda è questa: come fa una band a sviluppare un linguaggio, uno stile credibile, qualcosa di profondo nello spazio di un disco o due? Non serve all’arte un po’ più di aria e di storia? Sì che serve! Solo che, per come vanno oggi le cose, noi ascoltatori o webzinari (due entità che sempre più spesso si confondono) non gliela concediamo. Abbiamo innescato un meccanismo vuoto che mangia se stesso senza rendercene conto. E guardate chi va a quel tipo di concerti: gente a cui non gli interessa niente di chi suona, ma che è lì almeno nel 60% dei casi per promuovere se stessa, il suo progetto, la sua vita, per parlare, per prendere contatti, o semplicemente per giocare a ping pong o favorire la sua esistenza sociale. E questa sarebbe una logica indipendente? Per essere indipendenti bisogna sapere da cosa si fugge. E allora fuoco.
Ogni tanto proveremo a farci un giro nei localini più piccoli, quelli che profumano ancora di libertà e di autenticità, per riscoprire qualcosa, per ritrovare ossigeno. Una specie di slow food dell’anima. Questa è resistenza, questa è Sparta. Ce ne sono. Bisogna solo sbattersi un po’ di più. Sono i locali dove iniziano le cose, che forse si conclameranno o che forse non saranno mai.
In questa rubrica parlerò di cose piccole, sarò romantico, mai obiettivo, farò errori e sarò impreciso, inoltre non starò mai sul pezzo. Chi se ne frega. E certo inquinerò il web di altre parole inutili, accenderò dei computer e metterò in moto dei server, che pure quelli inquinano. Ma cercherò di assomigliare sempre il più possibile al silenzio.
Settimane fa ad esempio mi trovavo al Dal Verme, un locale in via Luchino dal Verme 8, (RM) che sull’insegna presenta ancora con fierezza la scritta “salsamenteria, carne suina” ereditata dall’attività precedente, e lasciata lì dai nuovi gestori per poesia, mimetismo urbano, ironia situazioni sta, semplice praticità o chissà cos’altro. È un club composto solamente di due sale, quella superiore è un bar a occhio e croce di circa 15 metri quadrati, un bancone, qualche poltrona e due sgabelli. Ma dietro al bancone c’è il paradiso (se vi piace bere): una selezione di birra artigianale favolosa, anche alla spina, e soprattutto due puristi dell’arte di miscelare alcolici: sedetevi al bancone con calma e ordinate un Aviation, fatevi questo favore. Vedrete due mani esperte e ospitali (Tony o Mario che siano) collocarvi davanti un bel bicchiere di vetro rétro, e preparare con la dovuta lentezza e artigianeria una bevanda che è spettacolare nella forma e nel contenuto, che sa di gin, limone e di essenza di violetta. Per qualche motivo vi sentirete un re, non scherzo.
Poi andate nel sottoscala. E troverete una saletta per concerti grande quanto la metà della sala precedente, pulita, spartana e ben insonorizzata, col parquet (dell’Ikea) per terra, e un palco che (mi piace pensare per motivi ideologici) collocato quasi all’altezza del pubblico: spesso uno o due musicisti suonano al livello del terreno per fare spazio alla batteria. Ma il suono vi arriva in faccia dritto dagli amplificatori della band, caldo e pastoso, ed è bellissimo se siete bevuti. Lì ci ho visto i Menrovescio, un trio strumentale vincetino post-rock, post-hardcore, post-metal, post-tutto. Venivano dal veneto e suonavano davanti a 20-25 persone. E suonavano massicci riffoni cervellotici ed emotivi, drammatici fieri ed esplosivi. Gli esperti dicono Pelican, Isis, Neurosis e affini, io (che non voglio sapere niente) dico che è come avere dei Tool hardcore dell’entroterra veneto (con tutto l’alcol, la pragmaticità, la fede e le bestemmie a denti stretti di quei luoghi) che suonano degli strumentali ipotetici nella tua stanzetta.
Gli compro il loro secondo album, denominato semplicemente K. Artwork meraviglioso in tonalità di b/n e grigio, che sembra quasi opera di Pushead, e che scopro invece essere opera di Riccardo Zulato, alias Cikas, il chitarrista riffarolo e psicoattivo-effettista della band. Fatevi un giro su www.cikaslab.com, tanta roba. Ho selezionato per voi due brani, così non perdete tempo (che so ne avete poco) e vedete subito se vi piace: Loopus, drammatico, impreciso, metal q.b. arrembante ed epico: mettetevelo in macchina, alzate il volume (alzatelo cazzo! di più, ecco va bene), andate e confondetevi nella vita.
Il secondo Sinlarva, una post-tarantella, un saltarello metalcore con cowbell sulle prime battute, che deraglia sempre più causa una chitarra da manicomio criminale e una batteria che vi prende per il culo. E permettetemi il terzo, Morilavry che segnalo per l’uso emo-core della voce (testo in Italiano).
Tutto qui, la produzione risente dei pochi mezzi, ma ha stile e autenticità pratica da vendere. Non fate gli stronzi. Specie quella chitarra che mi piace definire “croccante”. Ah, dal vivo suonano dieci volte più pestoni di così.
Con odio, tutto per voi.
Dirty keyboard.