Il Pan del Diavolo: “Tutti fuggono da qualcosa, noi fuggiamo verso un palco”

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Prima di incontrare Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo a Gubbio in occasione del Gubbstock Rock Festival per puro caso mi sono imbattuta in un vecchio numero di una storica rivista musicale italiana che aveva in copertina i Black Rebel Motorcycle Club. Presa dalla curiosità mi sono messa a leggere l’intervista contenuta all’interno e ho trovato uno spassossimo vademecum su certe tipologie di artisti che i critici e giornalisti musicali hanno imparato a temere: una di queste sarebbe quella dei cosiddetti “riluttanti”, quelli che – in sostanza – rifuggono un po’ le interviste e non amano parlare troppo della loro musica né tantomeno di loro stessi. Nel caso dei BRMC quell’intervista effettivamente toccava punte di altissimo disagio, e mi chiedevo – avendo constatato che anche il duo siciliano non compariva di continuo su webzine o giornali come altri gruppi dell’indie nostrano – se alla fine non mi dovessi districare anche io in risposte scocciate o monosillabiche. Niente di così estremo né da temere con il Pan del Diavolo, anche se i due picciotti riluttanti un po’ lo sono: riservati e di poche parole, i ragazzi badano al sodo e amano fare anche un po’ i misteriosi: ma di fatto sono persone disponibilissime, molto simpatiche e alla mano, e ci hanno raccontato qualcosa in più sul loro ultimo disco, Folkrockaboom.

Folkrockaboom è una specie di neologismo: da dove avete preso questa parola e che significato ha per voi?

Folkrockaboom è una parola che abbiamo più o meno inventato noi e ha rappresentato il genere che facciamo, una specie di slogan esplicativo della nostra musica: poi è diventata anche una canzone, e questo titolo ci sembrava perfetto per caratterizzare l’intero nuovo lavoro.

In questo disco le canzoni hanno un respiro più intimista dei precedenti: come sono nate? Avete cambiato qualcosa nel metodo di scrittura?

Il metodo di scrittura delle canzoni va cambiando sempre, perchè è un processo in evoluzione continua, pur se manteniamo alcuni punti fermi e alcun standard fissi, ma non so se questo sia in diretta relazione con i temi affrontati: semplicemente è tutto molto naturale e in continuo mutamento. Le canzoni effettivamente hanno un carattere un po’ più introspettivo e autobiografico, ma non è stato un calcolo o una scelta così ricercata: ci lasciamo influenzare da ciò che è la nostra vita, dalle situazioni che abbiamo intorno, dalle persone che incontriamo. Non sono necessariamente storie che raccontano noi stessi: possono parlare di chiunque, non specificamente di Alessandro o Gianluca. Diciamo che in parte sono prettamente autobiografiche, in parte no.

Nel disco si respira aria di fuga, anche forse per una canzone tra le più significative “Vivere Fuggendo”

Non si fugge da niente o si fugge da tutto, tutti fuggono da qualcosa, consapevoli o meno: però non è che noi stiamo fuggendo da qualcosa in particolare. “Vivere Fuggendo” è semplicemente una spiegazione di quello che è la nostra vita, di quello che facciamo sempre: metterci in macchina, in treno, in aereo e girare tutta l’Italia, e non avere mai la certezza di passare il resto della vita in un posto: cosa che tuttora non sappiamo.

In questo continuo girare, c’è stato un luogo o più luoghi dove vi siete sentiti a casa?

Noi siamo dei girovaghi, la nostra casa sostanzialmente è il palco. Per registrare questo disco siamo stati in tantissimi posti diversi, tra Italia e Stati Uniti:  la geografia di “Folkrockaboom” come vedi è piuttosto varia, non c’è un solo posto che possiamo chiamare davvero casa. Per questo, alla fine dei conti, è il palco il luogo in cui ci troviamo più a nostro agio. In Arizona, dove abbiamo mixato, ad esempio, ci siamo trovati a casa ma soltanto perché lì abbiamo trovato delle persone che ci hanno fatto sentire come in famiglia: se da un lato siamo stati bravi noi a spingerci fino lì, dall’altro è stata una fortuna avere persone che ci hanno accolto come se fossimo a casa: di fatto non sapevamo bene a che cosa andavamo incontro. Quindi non è una questione di luoghi: non è la terra in sé la ragione, ma le persone che incontri e le relazioni che hai modo di sviluppare, a farti sentire a casa. Possiamo sentirci a casa a Austin, a Palermo o altrove, ma la nostra vera casa poi rimane il palco.

A proposito di spingervi oltre: avete suonato su un palco importante come quello del South by Southwest di Austin. Che impressioni avete avuto e che incontri avete fatto laggiù?

Abbiamo incontrato Nick Olivieri, che io sognavo di conoscere e purtroppo l’ha beccato solo Alessandro (parla Gianluca, ndr.) ma non ci abbiamo parlato davvero, anche perchè essendo l’idolo di una vita sarebbero serviti tre giorni per dire tutto quello che avevamo in testa. Poi abbiamo ascoltato con grande interesse il discorso lungo quasi un’ora di Dave Grohl sul music business e su come è nata la sua vita musicale. Quello che ci ha colpito molto è il fatto che se l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, Austin è una città fondata sulla musica: lì suonano dalle sei di mattina fino a quando non chiudono gli occhi, e amano sentire la gente suonare. L’attenzione è sicuramente più allargata rispetto all’Italia. E poi è il sud dell’America, è bellissimo, è simile alla Sicilia: per noi un luogo meraviglioso.

A proposito di casa, che rapporto avete con la vostra città di origine, Palermo?

Palermo è nelle nostre canzoni, ce la portiamo dietro in tutto, fa parte di noi. È la nostra casa base, quella da cui siamo partiti, quella in cui abbiamo iniziato a suonare e a cui torniamo con grande amore: ci ha cresciuti e formati e non è facile da dimenticare, né tantomeno da cancellare.

Questa per voi è la seconda volta in un festival della rete di Indiepolitana, cosa ne pensate di iniziative di questo tipo?

Le reti di festival sono fondamentali per la crescita delle band e della cultura musicale dal basso: noi abbiamo iniziato a muovere i primi passi anche grazie a questi contesti, fatti di ragazzi che si danno da fare per passione come – ad esempio – nel caso di organizzazioni studentesche che mettono su eventi e concerti. Tutte queste realtà sono un gradino fondamentale nella scala della musica live, i più giovani devono avere la possibilità di fare esperienza e crescere, e con loro può crescere anche la stessa musica.

In questo disco ci sono svariate collaborazioni, quella già rodata con i Sacri Cuori quella con Craig Schumacher al missaggio e poi quella fortemente voluta con Andrew Douglas Rothbard per “Aradia”: avete una collaborazione dei sogni a cui state lavorando?

Mah, ultimamente stiamo coltivando il sogno di collaborare con un grandissimo per noi come Jack White: abbiamo iniziato a scambiarci delle mail e vediamo se ne verrà fuori qualcosa…

Mi prendete in giro o è vero?

Questo lo saprai quando sentirai il prossimo disco.

E vi assicuro che erano serissimi. O fingono bene, o c’è davvero da aspettarsi di tutto da questi due.