ATTITUDINE E VISUAL: questa estate mite, ma non da temperature insopportabili, rende queste occasioni davvero speciali. Una leggera brezza che accarezza la creatura di Renzo Piano accoglie il concerto di due monumenti del Jazz e oltre come Herbie Hancock e Wayne Shorter, colonne portanti ed eredi fedeli degli insegnamenti del grande Miles Davis. Il palco della cavea dell’Auditorium Parco della Musica in pochi anni ha accresciuto il suo prestigio internazionale ormai affiancando per livello qualitativo anche il cartellone invernale della creatura dell’architetto genovese. Anche questo anno il cartellone è stato ricco ed ha abbracciato la forma musicale nel suo complesso, passando da quella d’autore al rock classico, e quello alternativo. Stasera si tratta di una serata speciale e anche le bizze del maltempo che lasciavano presagire tuoni e fulmini hanno finalmente concesso una pausa.
AUDIO: L’audio è assolutamente pregevole. Sembra quasi, dopo tanti concerti ascoltati, che lo studio acustico di Piano abbia felicemente esteso la sua influenza anche agli spazi esterni. Incredibile è la capacità di adattarsi alle sonorità più diverse. Stasera i due jazzisti si presentano da soli, senza alcuna band di supporto ma solo accompagnati da loro stessi. E l’effetto è più che buono, considerando anche quanto Hancock sia attento a questi particolari.
SETLIST: l’impressione complessiva è che Hancock e Shorter abbiano definitivamente rielaborato i loro inizi di carriera. La loro rivoluzione degli anni settanta e ottanta, l’influenza dell’esperienza degli Weather Report è stata decisiva a quanto si vede oggi. Shorter è sembrato più a suo agio in questa occasione, che rispetto a un anno fa quando venne accompagnato da un quintetto. La scena la guida Mr. Hancock diviso tra il suo piano classico e quello elettrico, sui quali Wayne Shorter incastona delle gemme preziose, a suo piacimento e con i suoi tempi. All’inizio sembra che il suo strumento non ne voglia sapere, ma alla fine ha la meglio, con pazienza, il sassofonista di Newark.
MOMENTO MIGLIORE: Tutta la seconda parte del concerto, finendo con l’unico bis concesso. Non è stato un concerto facile per gli spettatori, e un pizzico di delusione serpeggiava in chi si aspettasse estratti da “Chameleon” per esempio. Ma gli assoli di Shorter e la naturalezza di Hancock al piano sono stati incantevoli sciogliendo lo scorrere del concerto in armonie di secondi lenti.
PUBBLICO: E’ sempre affascinate osservare il pubblico in questi eventi. Donne ingioiellate, vestite da gran sera, e uomini attempati avvolti dalle nubi dei loro sigari. Un po’ decontestualizzati, e attratti più dal nome che dalla musica. Ma anche l’aspetto mondano ha sempre accompagnato il Jazz dai suoi albori.
LOCURA: Una frase sussurrata in romanesco da una coppia di amici esperti o pseudotali sulla performance di Hancock e Shorter “Possiamo dire che questi due il Jazz lo hanno messo da parte?”
CONCLUSIONI: Lo spirito con il quale si assiste a questi eventi deve essere celebrativo e non molto critico. Hancock è ancora al massimo della forma, ha voglia di offrire stimoli e di essere musicalmente attivo. Shorter è invece un pezzo di storia vivente del jazz. Pennella e dipinge note. E quando il suo strumento non lo segue, o la serata fatica a decollare, regala sobri gesti di stizza misti a ironia e tutto si aggiusta. Perché il Jazz, in ogni sua elaborazione è musica grande, ma anche grande performance. Con etichetta, come stasera.